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– Nulla, Trot – ella rispose. – Siediti, siediti. Fiorellino era un po’ sconvolta, e io le ho fatto compagnia. Questo è tutto.

Appoggiai la testa alla mano, e mi sentii più addolorato e depresso, mentre me ne stavo lì a contemplare il fuoco, di quel che avessi mai creduto possibile così presto dopo il pieno appagamento di tutti i miei più fulgidi voti. Mentre continuavo a pensare, mi accadde d’incontrare gli sguardi di mia zia, ch’eran fissi su di me. V’era in essi un’espressione di ansia; ma si dileguò subito.

– Vi assicuro, zia – dissi – che sono stato male tutta la sera, pensando allo stato di Dora. Ma io non avevo altra intenzione che di parlare con tutta tenerezza e amore delle nostre faccende domestiche.

Mia zia mi fece un segno d’incoraggiamento.

– Tu devi aver pazienza, Trot – mi disse.

– Naturalmente. Dio sa che non intendo essere irragionevole, zia!

– No, no – disse mia zia. – Ma Fiorellino è un tenero fiorellino, e il vento dev’esser gentile con lei.

Ringraziai, in cuor mio, mia zia per la sua tenerezza verso mia moglie; sicuro che ella mi intendeva.

– Non credete, zia – dissi, dopo aver contemplato un altro po’ il fuoco – che sarebbe opportuno di consigliare un po’ Dora, di tanto in tanto, per nostro mutuo vantag-1137

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gio?

– Trot – rispose mia zia, con qualche emozione – no, non chiedermi una cosa simile.

Il suo tono era così grave che levai gli occhi, sorpreso.

– Io do uno sguardo al passato, figlio mio – disse mia zia – e penso ad alcuni che sono sepolti e coi quali avrei potuto mantenere dei rapporti più gentili. Se io giudicavo severamente gli errori degli altri in tema di matrimonio, dipendeva forse dal fatto che avevo delle amare ragioni per giudicare severamente il mio. A parte questo, per molti anni oramai sono stata una donna strana, malcontenta, e bizzarra, come sono ancora, e come sarò sempre. Ma fra te e me ci siamo fatti del bene, Trot... ad ogni modo, tu mi hai fatto del bene, caro; e a quest’ora fra noi non ci debbono essere divisioni.

– Divisioni fra noi! – esclamai.

– Bambino, bambino! – disse mia zia, lisciandosi il vestito. – Neppure un profeta sarebbe in caso di dire come avverrebbero presto, e come potrei rendere infelice il nostro Fiorellino, se cercassi di mischiarmi in qualche cosa. Io desidero ch’ella mi voglia bene, e sia sempre lieta come una farfalla. Ricorda casa tua, in quel secondo matrimonio; e non far mai né a me né a lei il torto che hai immaginato.

Compresi subito che mia zia aveva ragione; e compresi a pieno la generosità dei suoi sentimenti verso mia 1138

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moglie.

– Sono i primi giorni, Trot – ella continuò – e Roma non fu fabbricata in un giorno, e neppure in un anno. Tu hai scelto di tua spontanea volontà – mi parve che una nuvola le velasse il viso, per un istante – e hai scelto una bella e affettuosa ragazza. Sarà tuo dovere, e tuo piacere anche... naturalmente ne son convinta; io non ti sto facendo una predica... di stimarla (giacché l’hai scelta tu) per le qualità che ha, non per quelle che non ha. Queste ultime, se puoi, devi tu cercare di svilupparle in lei. E se non puoi, figlio – e così dicendo mia zia si diede una stropicciata al naso – devi abituarti a farne senza. Ma ricordati, figlio mio, che il vostro avvenire, è fra voi due.

Nessuno può aiutarvi: ve lo dovete formare da voi. Questo è il matrimonio, Trot; e il Cielo vi benedica entrambi in questa avventura, poiché voi siete come due bambini perduti in un bosco.

Mia zia disse questo in tono scherzoso, e mi diede un bacio come sanzione della sua benedizione.

– Ora – ella disse – accendi il mio lanternino, e accom-pagnami alla mia scatoletta per la via del giardino – perché da quella parte i nostri due villini erano in comunicazione. – Dai a Fiorellino i saluti di Betsey Trotwood, al ritorno, e checché accadrà, Trot, non pensar mai di far di Betsey uno spauracchio, perché l’ho vista spesso allo specchio, e so che è già naturalmente burbera e arcigna, senza aggiungervi altro.

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Così dicendo, mia zia si legò la testa in un fazzoletto, come era solita fare in simili occasioni; e io l’accompagnai a casa sua. Mi parve, mentre, ferma nel giardino innanzi alla porta, sollevava il lanternino per rischiararmi la via del ritorno, ch’ella mi guardasse di nuovo con una espressione di ansia; non vi badai gran che, troppo occupato com’ero a riflettere a ciò che m’aveva detto, e troppo penetrato, per la prima volta, in verità, dalla persuasione che Dora e io dovevamo crearci il nostro avvenire da noi.

Dora discese in pantofole per venirmi incontro, e si mise a piangere sulla mia spalla, e mi disse che io ero stato crudele e lei era stata cattiva; e credo che io dicessi in sostanza le stesse cose; e tutto finì; e decidemmo che quella piccola disputa sarebbe stata l’ultima, e che non ne avremmo avuta mai una seconda, anche se fossimo arrivati a cent’anni di vita.

Il nuovo affanno domestico da noi sperimentato fu il Torneo delle Domestiche. Il cugino di Maria Anna aveva disertato e s’era andato a nascondere nel buco che formava la nostra carbonaia. Ne fu tratto, con nostra gran meraviglia, da un picchetto armato di suoi commi-litoni, che lo ammanettarono e lo condussero via in un corteo che sparse d’ignominia l’ingresso del nostro giardino. Questo m’incoraggiò a sbarazzarmi di Maria Anna, che se n’andò con tanta tranquillità, appena ebbe intascato il salario, che io ne rimasi sorpreso, finché non 1140

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scopersi la faccenda dei cucchiaini da tè, e certi prestiti di piccole somme, fatti da lei in mio nome, presso i bottegai del quartiere. Dopo un intervallo di certa Kidgerbury – la più vecchia abitante di Kentis Town, credo, che andava in servizio a giornata, ma era troppo debole per la pratica effettuazione delle sue idee di quell’arte –

trovammo un altro tesoro, che era una donna piacevolissima, ma che generalmente s’ostinava a cadere, tutte le volte che aveva in mano il vassoio, salendo o scendendo per le scale della cucina, e a crollare in un mucchio nel salotto, come in un bagno, con le tazze e la teiera. Gli stermini commessi da quella sciagurata resero necessario il suo congedo, che fu seguito (con intermezzi della domestica provvisoria Kidgerbury) da una lunga schiera di Incapaci, la quale terminò con una ragazza di nobile aspetto, che si recò alla fiera di Greenwich col cappello di Dora. Dopo la quale, non ricordo che una media eguaglianza di insuccessi.

Pareva che quanti avessero qualche cosa da fare con noi, tirassero a ingannarci. Il nostro ingresso in una bottega era il segnale dell’apparizione immediata dei fondi guasti di magazzino. Se compravamo un’aragosta era piena d’acqua. Tutta la carne che ci portavano a casa era co-riacea, e il nostro pane era quasi senza crosta. In cerca del principio che governa la cottura a punto d’un arrosto, consultai io stesso il Libro di cucina, e vi appresi che bisognava concedere un quarto d’ora a ogni libbra di carne, e un quarto di più per il tutto. Ma per una stra-1141

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na fatalità, quel principio non reggeva mai, e non ci riusciva di trovare il giusto mezzo fra la carne sanguino-lenta e la carne calcinata.

Avevo ragione di credere che tutti quei disastri ci costas-sero molto più che se avessimo avuto da registrare una serie di trionfi. Mi sembrava, consultando i conti dei bottegai, che avremmo potuto pavimentare il pianterreno con mattonelle di burro, in tanta profusione ne con-sumavamo. Non so se le imposte in quel torno di tempo mostrassero un aumento di domanda nella voce del pepe; ma se il nostro consumo non ebbe influenza sul mercato, bisogna conchiudere che parecchie famiglie ne sospendessero l’uso. E il più meraviglioso si era che non ce n’era mai un acino in casa.

Quanto alla lavandaia, che andava a mettere in pegno la nostra biancheria, e si presentava in uno stato d’ubbriachezza penitente a chiederci scusa, la suppongo una circostanza che può essere capitata parecchie volte a chiunque. Come pure l’incendio del camino, la pompa della parrocchia, e la falsa testimonianza dello scaccino.

Ma debbo conchiudere che fummo veramente disgraziati nel prendere in nostro servizio una domestica che aveva una grande passione per i liquori, e che arrotondò il nostro conto corrente con la fornitura della birra presso il birraio con delle aggiunte inesplicabili come «Un quarto di bottiglia di rum (signora C.)»; «Mezzo quarto di ginepro (signora C.)»; «Bottiglia di rum e acquavite 1142

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(signora C.)». Le parentesi si riferivano sempre a Dora, che aveva dovuto assorbire, a quanto ci fu spiegato dopo, l’intera quantità di tutti quei liquidi incendiari.

Una delle nostre prime imprese di genere casalingo fu un desinaretto per Traddles, che avevo incontrato un giorno in città, invitandolo a venir fuori con me in quel pomeriggio. Egli accettò subito, e io scrissi a Dora, dicendole che l’avrei condotto a casa. Faceva bel tempo, e per strada il tema della nostra conversazione fu la mia felicità domestica. Traddles ne era perfettamente convinto; e mi diceva che, immaginando d’avere una casa come la mia e Sofia che l’attendesse a desinare, non riusciva a pensare che potesse mancar nulla alla sua completa beatitudine.

Io non avrei potuto desiderare una più leggiadra mogliettina all’estremità opposta della tavola; ma avrei, certo, potuto desiderare, quando vi prendemmo posto, un po’ più di spazio. Non so perché, ma sebbene fossimo soltanto in due, non c’era mai spazio a sufficienza, e pure ce ne avevamo sempre a dovizia per perdere qualunque oggetto. Forse era perché nulla aveva un luogo assegnato, eccetto la pagoda di Jip che invariabilmente bloccava il passaggio principale. In quell’occasione, Traddles era così inceppato fra la pagoda e la custodia della chitarra, il cavalletto di Dora e il mio scrittoio, che ebbi dei gravi dubbi che potesse riuscire in qualche modo a maneggiare il coltello e la forchetta; ma egli 1143

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protestò col suo invariabile buon umore: «Ho un mare di spazio, Copperfield; ti giuro, un mare di spazio!».

Vera un’altra cosa che avrei potuto desiderare; che Jip, cioè, non fosse stato incoraggiato a passeggiare sulla tovaglia durante il desinare. Cominciai a pensare che in quel momento non fosse legittima la sua stessa presenza, anche se non avesse avuto l’abitudine di mettere le zampe nel sale o nella scodella del burro fuso. In quell’occasione esso credé d’esser stato chiamato espressamente per dar la caccia a Traddles; e abbaiava al mio vecchio amico e faceva degli assalti sul suo piatto, con tanta indomabile pertinacia, da formar lui solo l’unico soggetto della conversazione.

Ma conoscendo il cuor tenero di Dora, e come fosse sensibile sul punto del suo favorito, che non si poteva trattar leggermente, non feci alcuna obbiezione. Per la stessa ragione non feci alcuna allusione alla scherma ch’esso faceva coi piatti sul pavimento; né alla cattiva disposizione delle posate, delle oliere e delle saliere, messe in gruppo di cinque o sei, alla rinfusa; né all’ulte-riore blocco di Traddles per mezzo dei piatti vaganti e delle bottiglie. Ma non potevo fare a meno dal pensare, mentre stavo in contemplazione del cosciotto di castrato allesso, che mi stava dinanzi, prima di tagliarlo, come avvenisse che i cosciotti che compravamo noi fossero sempre di forma così strana, e che il nostro macellaio avesse per principio di fare incetta di tutte le pecore de-1144

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formi che venivano al mondo; ma non feci parte a nessuno delle mie riflessioni.

– Amor mio – dissi a Dora – che hai in quel piatto?

Non sapevo spiegarmi perché Dora stesse da alcuni istanti facendo delle piccole smorfie con le labbra, come se volesse far l’atto di baciarmi.

– Ostriche, caro – disse timidamente Dora.

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