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Ho fatto un altro tentativo. Con timore e tremore mi son provato a diventar autore. Ho scritto una cosetta in segreto, l’ho mandata a una rivista, e la rivista l’ha pubblicata. Così, ho preso cuore a scrivere altri lavorucci, che mi sono regolarmente pagati. In complesso, i miei affari sono bene avviati; e quando calcolo i miei guadagni sulle dita della sinistra, passo il terzo dito e arrivo sul quarto alla seconda giuntura.

Noi avevamo lasciato Buckingham Street per trasferirci in un bel villino vicinissimo a quello che avevo ammirato tanto nel mio primo entusiasmo. Mia zia, però (che aveva venduta la casa di Dover con un buon guadagno), non intende rimanervi; ma si propone di andare ad abitare una casetta ancora più piccola nello stesso vicinato.

Che cosa significa tutto questo? Il mio matrimonio? Appunto.

Appunto, sto per sposare Dora. La signorina Lavinia e la signorina Clarissa hanno dato il loro consenso; e se mai ci furono canarini in agitazione, somigliarono perfettamente ad esse. La signorina Lavinia, che s’è assunta la sovraintendenza della guardaroba della mia diletta, è 1117

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continuamente occupata a tagliare corazze di carta grigia e a discutere con qualche rispettabile giovane che ha un lungo pacco e una misura lineare sotto il braccio.

Una sarta, sempre col petto trafitto da un ago infilato, mangia e dorme in casa; e a me sembra che mangi, beva e dorma, senza mai togliersi il ditale. La mia cara è diventata un vero manichino. Ogni momento vien chiamata per provarsi qualche cosa. Noi non possiamo stare insieme cinque minuti in pace la sera, senza che qualche donna importuna non venga a picchiare alla porta, e a dire: «Per piacere, signorina Dora, volete venire un momento su?».

La signorina Clarissa e mia zia vanno vagando per tutta Londra, per trovare dei mobili che noi dopo dobbiamo andare a vedere. Sarebbe meglio se li comprasse-ro addirittura, facendo a meno della cerimonia di collau-do; perché quando andiamo a vedere un parafuoco e un copripiatto, Dora scorge una casettina cinese per Jip, con de’ campanelli in alto, e compra quella. E ci vuole parecchio tempo per abituare Jip alla sua nuova residenza, dopo che l’abbiamo comprata: tutte le volte che vi entra o n’esce, ne fa sonare, con suo gran terrore, tutti i campanelli.

Arriva Peggotty per rendersi utile, e si mette immediatamente a lavorare. Sembra che la sua missione sia di pulire e ripulire continuamente ogni cosa. Sfrega ogni oggetto che si può sfregare, finché non lo vede rilucere, 1118

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come riluce la sua onesta fronte. E di tempo in tempo, io veggo suo fratello errar solo la sera a traverso le vie oscure, fermo a guardare tutte le donne che passano. Io non gli parlo mai a quell’ora; so benissimo, quando lo incontro grave e solitario, ciò che cerca, e ciò che teme.

Perché Traddles ha una ciera così importante oggi venendo a trovarmi al Commons, dove io vado ancora di tanto in tanto, per amor delle apparenze, quando ho tempo? L’incarnazione dei miei sogni infantili è prossima: sto per prendere la licenza di matrimonio.

È un piccolo documento e significa tanto. Traddles lo contempla sul mio scrittoio, con un sentimento d’ammirazione e di rispettoso timore. Ecco i nomi nella dolce, vecchia e fantastica unione, Davide Copperfield Dora Spenlow; ed ecco, in un angolo, quella Istituzione Paterna, l’Ufficio del Bollo, così benevolmente interessato nelle varie vicende della vita umana, che dà una occhiata alla nostra unione; ed ecco l’arcivescovo di Canterbury che invoca su noi una benedizione a stampa, al più buon mercato possibile.

E pur nondimeno mi par di fare un sogno, un sogno agitato, felice, rapido. Non mi par possibile che si avvererà; e pure non posso non pensare che quanti m’incontrano per via debbano avere certamente una specie di percezione che io posdomani sarò sposo. La Corte dei Surro-gati mi ravvisa, quando vi vado a giurare, e dispone di me con familiarità, come se passasse fra noi un vincolo 1119

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massonico. Traddles non m’è affatto necessario, ma mi accompagna in qualità di mio aiutante generale.

– Spero che la prossima volta che verrai qui, mio caro amico – dico a Traddles – ci verrai per lo stesso mio scopo. E t’auguro che quel giorno arrivi presto.

– Grazie per i tuoi auguri, mio caro Copperfield – egli risponde. – Lo spero anch’io. È una soddisfazione sapere che lei m’aspetterà tutto il tempo che sarà necessario, e che veramente è una cara ragazza...

– A che ora vai alla diligenza ad attenderla? – chieggo.

– Alle sette – dice Traddles, consultando il suo vecchio orologio d’argento, lo stesso orologio da cui una volta, a scuola, aveva cavato una ruota per fare un mulino ad acqua. – La stessa ora della signorina Wickfield, credo.

– Un po’ più presto. La signorina Wickfield arriva alle otto e mezzo.

– Ti assicuro, mio caro amico – dice Traddles – che sono tanto contento, quasi come se stessi per ammogliarmi io. E poi non so come ringraziarti per la bontà e il sentimento d’amicizia che t’ha mosso di far partecipare personalmente Sofia a questo lieto avvenimento, invi-tandola a essere damigella d’onore della sposa insieme con la signorina Wickfield. Ne sono molto commosso.

Io l’ascolto e gli stringo la mano; e parliamo, e cammi-niamo, e desiniamo, e così di seguito; e a me non par 1120

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possibile. Nulla è reale.

All’ora stabilita, Sofia arriva in casa delle zie di Dora.

Ella ha un viso grazioso – non assolutamente bello, ma d’una grande simpatia – ed è la fanciulla più schietta, naturale, sincera, attraente che io mi sia mai veduta.

Traddles ce la presenta con un senso d’orgoglio; e si sfrega le man per dieci minuti filati d’orologio, con tutti i capelli irti come spilli sulla testa, quando gli faccio in un angolo le mie congratulazioni.

Sono andato ad aspettare Agnese all’arrivo della diligenza di Canterbury, e il suo lieto e sereno viso è per la seconda volta fra noi. Agnese ha una grande simpatia per Traddles, ed è bello vederli, nel momento dell’incontro, e osservare la soddisfazione di Traddles mentre le fa fare la conoscenza della più cara ragazza del mondo.

E pure non mi sembra possibile! Passiamo una giornata deliziosa, e siamo estremamente felici. Ma tutto mi sembra un sogno. Non riesco a raccogliermi; non riesco a frenare la mia felicità. Mi sembra d’essere in una condizione nebulosa e malferma; come se mi fossi levato presto una quindicina di giorni prima, e non fossi andato ancora a letto. Non riesco a capire quando fu ieri. Mi pare d’essere andato errando per parecchi mesi con la licenza in tasca.

Anche il giorno dopo, allorché andiamo tutti in gruppo a 1121

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veder la casa – casa nostra – quella mia e di Dora – non sono in grado di considerarmene il padrone. Mi par di vedere da un momento all’altro arrivare il vero padrone e sentirmi dire che è lieto di salutarmi. E che bella casa che è, con tutti gli arredi lucidi e nuovi; coi fiori sui tappeti, che sembrano colti un momento fa, e le foglie verdi sulla carta delle pareti, che sembrano spuntate in quell’atto; con le cortine di mussolina immacolata, e i mobili di pudibondo color di rosa, e il cappello fiorito di Dora col nastro azzurro – ricordo, ora, come le volevo bene in un altro cappello simile quando la vidi la prima volta –

già sospeso al suo piccolo piolo; e la custodia della chitarra che se ne sta a suo agio sul predellino in un angolo; e tutti che ammirano la pagoda di Jip, troppo grossa in proporzione della casa.

Un’altra serata felice, un altro sogno come gli altri, e furtivamente entro nella solita stanza prima d’andarmene. Dora non c’è. Immagino che stia ancora a provarsi qualche cosa. La signorina Lavinia s’affaccia, e mi dice misteriosamente ch’ella non tarderà molto. Ma intanto ritarda: e finalmente sento un fruscio alla porta, e qualcuno picchia.

Dico: «Avanti!»; ma si ode di nuovo un picchio.

Vado alla porta, meravigliato; ed ecco incontro un paio d’occhi lucenti e un viso tutto rosso: sono gli occhi e il viso di Dora; è la signorina Lavinia che l’ha vestita con l’abito di domani, cappello e tutto, per farmela ve-1122

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dere. Mi stringo al petto la mia piccola moglie: e la signorina Lavinia dà un piccolo strillo perché faccio cadere il cappello, e Dora ride e piange insieme, perché sono così gioioso; e tutto sembra più che mai un sogno.

– Ti piace, Doady? – dice Dora. – Bello! Altro se mi piace!

– E sei sicuro che mi vuoi molto bene? – dice Dora.

Questa domanda è carica di tanto pericolo per il cappello, che la signorina Lavinia dà un altro piccolo strillo, e m’avverte che Dora può essere, sì, guardata; ma per nessuna ragione al mondo, toccata. Così Dora rimane un paio di minuti in un delizioso atteggiamento di confusione per essere ammirata; e poi si leva il cappello (come è più graziosa senza!) e se ne va con esso in mano; e ritorna ballando con le vesti di tutti i giorni; e domanda a Jip se io ho una bella mogliettina, e se per-donerà alla sua padroncina che si marita, inginocchian-dosi per farlo star ritto sul Libro di cucina, per l’ultima volta, nella sua vita di nubile.

Vado a coricarmi, più incredulo che mai, in una cameretta fissata nelle vicinanze; e m’alzo presto la mattina per andare a Highgate a prendere mia zia.

Non ho mai veduto mia zia in un’acconciatura simile. Ha indossato un abito di seta color di lavanda, è coperta d’un cappellino bianco, ed è stupefacente. L’ha vestita Giannina, ed eccola che mi guarda. Peggotty è 1123

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pronta per venire in chiesa, dove vuole assistere alla cerimonia dalla tribuna. Il signor Dick, che deve conse-gnarmi la mia diletta all’altare, s’è fatto arricciare i capelli. Traddles, con cui avevo l’appuntamento alla barriera, presenta un’abbagliante combinazione di color crema e d’azzurro pallido; e tanto lui quanto il signor Dick danno l’impressione generale d’esser entrambi calzati di guanti dalla testa ai piedi.

Certo, m’accorgo di questo, perché so che è così; ma son distratto, e mi par di non veder nulla. Né credo a nulla di particolare. Pure, mentre corriamo verso la chiesa in carrozza aperta, quel matrimonio fantastico è abbastanza reale per riempirmi d’una strana compassione per quei disgraziati che non vi partecipano e s’affannano a spazzare davanti alle loro botteghe, o si recano alle loro occupazioni quotidiane.

Per tutto il percorso mia zia mi tiene la mano nelle sue. Quando ci fermiamo un po’ prima di arrivare alla chiesa per far discendere Peggotty, che è stata a cassetta, ella mi stringe la mano e mi dà un bacio.

– Dio ti benedica, Trot. Se tu fossi mio figlio, non mi saresti più caro. Questa mattina ho pensato a quella povera cara piccina di tua madre.

– Anch’io. E debbo tutto a te, cara zia.

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