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– Sapete che voglio? – disse mia zia.

– Una camicia di forza – egli disse.

– No. La roba mia! – rispose mia zia. – Agnese, mia cara Agnese, finché ho creduto che fosse stata perduta da vostro padre, non ho fiatato, non ho detto a nessuno, neanche a Trot, che avevo depositato qui il mio denaro.

Ma ora so che ne risponde questo signorino, e io lo voglio. Trot, vieni a fartelo dare!

Veramente non so se mia zia credeva ch’egli tenesse il denaro nel fazzoletto; ma il fatto sta che ella scoteva e tirava Uriah come se ne fosse convinta. M’affrettai a se-pararli, ed assicurai mia zia, che noi avremmo fatto di tutto per fargli restituire fin l’ultimo centesimo di quanto aveva indebitamente percepito. Questa assicurazione e pochi momenti di riflessione la calmarono; ma ella non parve affatto sconcertata da ciò che aveva fatto (benché non si possa dire lo stesso del suo cappellino) e riprese dignitosamente il suo posto.

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Negli ultimi pochi minuti, la signora Heep si era sgolata a gridare al figlio d’essere «umile»; e s’era ingi-nocchiata in giro innanzi a noi, facendo le promesse più stravaganti. Suo figlio la fece risedere; poi, mettendosi accanto a lei con un’espressione torva, tenendole un braccio, ma non rudemente, mi disse con uno sguardo selvaggio:

– Che volete che faccia?

– Vi dirò io quel che dovete fare – disse Traddles.

– Copperfield non ha dunque la lingua? – mormorò Uriah. – Io farei tutto per voi, se poteste assicurarmi che gliel’hanno tagliata.

– Il mio Uriah sarà umile! – esclamò la madre. –

Non badate a ciò che dice, miei buoni signori!

– Ciò che bisogna fare – disse Traddles – è questo.

Primo, mi consegnerete subito l’atto con cui il signor Wickfield vi faceva la consegna dei suoi beni.

– E se non l’avessi? – egli interruppe.

– Ma voi l’avete, e perciò è inutile affacciar dei dubbi – disse Traddles. – E non posso fare a meno dal confessare che quella fu la prima volta che io resi veramente giustizia al chiaro intelletto e al semplice, paziente, pratico buon senso del mio vecchio compagno di scuola. – Allora – egli proseguì – voi dovete prepararvi a rendere tutto ciò che ha uncinato la vostra rapacia, e a 1349

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restituirlo fino all’ultimo centesimo. Tutti i libri e le carte debbono rimanere in nostro possesso; tutti i conti e tutte le garanzie, tutto insomma.

– Sì? Io non so – disse Uriah: – debbo aver tempo a pensarci.

– Bene – rispose Traddles – ma, nel frattempo, e finché tutto non venga regolato secondo i nostri desideri, noi staremo qui in possesso di tutto; e vi pregheremo, e all’occorrenza vi costringeremo, a stare nella vostra camera, senza comunicare con chicchessia.

– Non lo farò – disse Uriah, con una bestemmia.

– La prigione di Maidstone è un luogo più sicuro di detenzione – osservò Traddles; – e benché la legge possa esser più lenta a reintegrarci nel nostro diritto, e non sia in grado di reintegrarci nella stessa vostra misura, cioè completamente, non v’è dubbio ch’essa vi punirà.

Voi lo sapete meglio di me. Copperfield, andate al Guil-dhall a chiamare due guardie.

A questo punto, la signora Heep si mise di nuovo a gridare e a piangere ai piedi d’Agnese, pregandola d’inter-cedere in loro favore, dicendo che egli era molto umile, e che tutto era vero, e che se egli non avesse fatto ciò che noi volevamo, l’avrebbe fatto lei; e così via, straziata e tremebonda per il suo diletto. A chiedersi ciò che avrebbe fatto lui, se avesse avuto coraggio, sarebbe come domandarsi quel che avrebbe fatto un botolo con 1350

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l’anima d’una tigre. Lui era vile dalla punta dei capelli alla punta delle scarpe, e in quel momento mostrava più che mai la codardia del suo carattere con la sua aria d’umiliazione e di sgomento.

– Aspettate! – egli urlò verso di me, asciugandosi con le mani il sudore del viso. – Mamma, sta’ zitta! Che si dia loro quella carta! Va’ a pigliarla.

– Accompagnatela, signor Dick, per piacere – disse Traddles.

Orgoglioso di quell’incarico di cui comprendeva l’importanza, il signor Dick l’accompagnò come un cane di pastore potrebbe accompagnare una pecora. Ma la signora Heep non gli diede gran fastidio, perché non solo ritornò con la carta, ma con la scatola che la conteneva, nella quale trovammo un libro di banca e alcuni altri fogli che dopo ci furono molto utili.

– Bene – disse Traddles, prendendo in consegna tutto. –

Ora, signor Heep, potete ritirarvi a meditare, notando particolarmente, di grazia, che io vi dichiaro da parte di tutti che c’è una grazia sola da fare: quella che v’ho detta, e che deve esser eseguita senza indugio.

Uriah, senza levar gli occhi dal pavimento, traversò la stanza con la mano al mento, e fermandosi sulla soglia, disse:

– Copperfield, io vi ho sempre odiato. Voi siete sempre stato un villan rifatto, e l’avete avuta sempre con me.

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– Già vi dissi una volta – risposi – che voi l’avete avuta, con la vostra avidità e la vostra scaltrezza, contro tutti.

Vi può giovare riflettere, per l’avvenire, che l’avidità e la scaltrezza non sanno mai fermarsi a tempo nel loro stesso interesse. E questo è certo come la morte.

– O come ci s’insegnava a scuola (la stessa scuola dove ho appreso tanta umiltà): dalle nove alle undici che il lavoro era una maledizione, dalle undici all’una che era una benedizione e una gioia, e una dignità, e altro ancora, eh? – disse con un sogghigno. – Voi predicate con la stessa logica di quella gente. L’umiltà è migliore. Non avrei dominato il mio nobile socio, senza di essa, siate-ne certo... Micawber, vecchio bruto, me la pagherete.

Il signor Micawber guardò con sovrano disprezzo Uriah e l’indice ch’egli gli puntava contro, e dopo averlo, sporgendo il petto, visto sparire dietro la porta, si rivolse a me, e mi chiese di dargli il piacere di «andare ad assistere al ristabilimento della reciproca fiducia fra lui e la signora Micawber». Dopo di che, egli invitò tutti alla contemplazione di quel commovente spettacolo.

– Il velo che s’era interposto fra me e mia moglie, è ora lacerato – disse il signor Micawber – e i miei figli e l’autore dei loro giorni possono ora riavvicinarsi in termini d’eguaglianza.

Pur essendogli tutti riconoscenti, e tutti desiderosi di dimostrarglielo, per quanto lo sconvolgimento dei nostri 1352

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spiriti ce lo permetteva, non potevamo andar tutti: era necessario che Agnese tornasse da suo padre, non ancora in grado di sopportare più che l’alba della speranza; e che qualche altro tenesse Uriah in sicura custodia. Così Traddles rimase per quest’ultimo scopo (sarebbe stato poi rilevato dal signor Dick); e il signor Dick, mia zia ed io, ci avviammo a casa del signor Micawber. Separato dalla cara fanciulla alla quale io dovevo tanto, pensando all’abisso dal quale era stata tratta, forse, quella mattina

– provai un senso di gratitudine per il tempo infelice della mia infanzia che m’aveva fatto far la conoscenza del signor Micawber.

La casa del signor Micawber non era lontana. Siccome l’uscio di strada si apriva nel salotto, ed egli vi entrò con la fretta che gli era speciale, ci trovammo subito nel seno della famiglia. Il signor Micawber, esclamando:

«Emma, vita mia!» si precipitò nelle braccia della moglie. La moglie cacciò uno strillo e s’abbandonò all’amplesso del marito. La signorina Micawber, che accudiva l’innocente nuovo venuto al quale aveva alluso la madre nella sua ultima lettera a me diretta, ne fu profondamente commossa. Il nuovo venuto si mise a salterellare. I due gemelli espressero la loro gioia con parecchie scon-venienti ma innocenti dimostrazioni. Il signorino Micawber, il cui carattere pareva fosse stato inacidito da precoci disinganni, e il cui aspetto era diventato tetro, si lasciò vincere dai suoi sentimenti più miti e si mise a piangere gonfiando le guance.

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– Emma – disse il signor Micawber, – la nuvola s’è dileguata dal mio spirito. La reciproca fiducia, da noi mantenuta per tanto tempo, è ristabilita, per non soffrir più alcuna interruzione. Ora, sii pur la benvenuta, o povertà!

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