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– No – disse Traddles.

Promisi a Traddles di fargli sentir cantare Dora, e di mostrargli i fiori ch’ella dipingeva. Egli disse che ne sarebbe stato lietissimo, e ce n’andammo a casa a braccetto, allegri e felici. Lo incoraggiai a parlarmi di Sofia, ed egli lo fece con una fiducia che mi commosse. La para-gonai fra me e me con Dora, con notevole mia soddisfa-1072

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zione intima; ma pure dovevo candidamente ammettere che, per Traddles, Sofia era un’eccellente ragazza.

Naturalmente a mia zia fu subito riferito l’eccellente risultato della conferenza, e quanto vi era stato detto e fatto. Ella fu lieta di vedermi lieto, e promise di andare senza indugio a visitare le zie di Dora. Ma quella sera metteva tanta ostinazione a passeggiare su e giù nelle due camere, mentre io scrivevo ad Agnese, che cominciai a pensare che avesse in animo di camminar fino alla mattina.

La mia lettera ad Agnese fu ardente e riconoscente. In essa le narravo i buoni effetti da me ottenuti seguendo i suoi consigli. Ella mi rispose a volta di corriere, con una lettera speranzosa, piena di buon senso e di buon umore.

Da quel momento ella mi si mostrò sempre di buon umore.

Ero più che mai occupato, ora. Putney era lontano da Highgate, dove mi recavo tutti i giorni, e pure desideravo andarvi più spesso che mi fosse possibile. Siccome non c’era assolutamente modo di approfittare dell’ora del te, riuscii ad ottenere dalla signorina Lavinia il permesso di andare il pomeriggio del sabato, senza detri-mento delle mie domeniche privilegiate. Così, la fine d’ogni settimana rappresentava per me un termine delizioso; e passavo tutti gli altri giorni nell’attesa di quei due.

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Fui straordinariamente sollevato nel vedere che mia zia e le zie di Dora se la intendevano, dopo tutto, molto meglio che io non avessi sperato. Mia zia fece la visita promessa dopo pochi giorni, le zie di Dora gliela resti-tuirono in buona e debita forma. Quelle loro visite si rinnovarono, ma in maniera più amichevole, generalmente a intervalli di tre o quattro settimane. So che mia zia scompigliava molto le zie di Dora, col non tener conto della dignità d’una carrozza, e con l’andare a piedi a Putney in ore intempestive, come appena dopo la colazione o un quarto d’ora prima del tè; come pure col portare il cappellino nella maniera che meglio le faceva comodo, senza piegarsi minimamente ai pregiudizi della moda. Ma le zie di Dora s’abituarono subito a considerar mia zia come una donna eccentrica e di maniere alquanto maschili, ma di forte intelletto; e benché facesse di tanto in tanto arricciare il naso alle zie di Dora, con l’esprimere opinioni eretiche su vari punti di etichetta, mia zia mi voleva troppo bene per non sacrificar qualcuna delle sue singolarità all’armonia generale.

Il solo individuo della nostra brigata, che positivamente rifiutava d’adattarsi alle circostanze, era Jip. Non vedeva mai mia zia senza mettere immediatamente in mostra tutti i denti, e rifugiarsi sotto una sedia a brontolarvi senza posa, dando di tanto in tanto un guaito, come se la presenza di lei fosse veramente di troppo per i suoi sentimenti. Erano stati provati con lui tutti i trattamenti possibili e immaginabili: carezze, sgridate, percosse, pas-1074

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seggiate a Buckingham Street (dove esso si slanciava immediatamente sui due gatti, con gran terrore di tutti i presenti); ma non si poté mai persuaderlo a tollerare la compagnia di mia zia. A volte giudicava d’aver sormon-tato ogni avversione, e si mostrava amabile per qualche minuto; ma ad un tratto levava su il naso, e si metteva ad abbaiare in modo, che non c’era altro rimedio che bendarlo e metterlo nello scaldavivande. Finalmente, Dora, tutte le volte che si annunziava una visita di mia zia, lo avvolgeva in un tovagliuolo e ve lo andava a chiudere senz’altro.

Una cosa mi turbava molto, anche in questa dolce maniera di vita: che Dora fosse unanimemente considerata come un balocco o una bambola. Mia zia, con la quale ella gradatamente si era fatta familiare, la chiamava sempre il suo fiorellino; e il piacere della vita della signorina Lavinia era di passare il tempo a vezzeggiarla, arricciarle i capelli, ornarla, e trattarla come una bambina viziata. Ciò che faceva la signorina Lavinia, veniva per naturale conseguenza imitato dalla sorella. Mi sembrava strano; ma tutti trattavano Dora quasi nel modo com’ella trattava Jip.

Risolsi di parlarne a Dora; e un giorno che eravamo usciti a passeggio (perché ci era stato concesso dalla signorina Lavinia, dopo un po’, d’uscire a spasso soli), le dissi che avrei desiderato ch’ella si facesse trattare diversamente.

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– Perché sai, cara – soggiunsi, – oramai non sei più una bambina.

– Ecco! – disse Dora. – Ora cominci a brontolare.

– A brontolare, amor mio?

– Son trattata con tanta amorevolezza che io sono felicissima – disse Dora.

– Ma, dilettissima mia – dissi – saresti felicissima anche se tu fossi trattata ragionevolmente.

Dora mi diede uno sguardo di rimprovero – che incantevole sguardo! – e poi si mise a singhiozzare, dicendo che se io non le volevo bene, perché avevo tanto desiderato d’esser suo fidanzato? E perché non me n’andavo subito, se non potevo sopportarla?

Che potevo fare, se non asciugarle le lagrime coi baci, e ripeterle che l’adoravo?

– Io so d’ essere affettuosissima – disse Dora: – tu non dovresti essere crudele con me, Doady.

– Crudele, amor mio! Come se volessi... o potessi... esser crudele con te!

– Allora, non mi trovare dei difetti – disse Dora, atteggiando la bocca come a un bocciuolo di rosa – e sarò savia.

Un momento dopo fui giubilante perché mi chiese, di sua spontanea volontà, di darle il Libro di cucina, del 1076

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quale le avevo parlato una volta, e d’insegnarle a tenere il libro dei conti, come le avevo anche una volta proposto. Alla mia visita successiva le portai il volume (l’avevo fatto rilegare elegantemente, per dargli un aspetto più allettante); e mentre ci aggiravamo fra i campi, le mostrai un vecchio libro di conti di mia zia; e le diedi un taccuino, e un bel portamatita, e una scatola di matite, perché cominciasse ad esercitarsi nella registrazione delle entrate e delle uscite.

Ma il Libro di cucina diede il mal di capo a Dora, e le cifre la fecero piangere. Non si volevano sommare, essa disse. Così le aveva cancellate, per disegnare mazzolini di fiori, e pupazzetti che rappresentavano me e Jip su tutti i fogli del taccuino.

Allora, mentre si andava a passeggio, il pomeriggio del sabato, cercavo giocosamente d’impartirle verbalmente delle nozioni di economia domestica; e, per esempio, passando innanzi a una bottega di macellaio, le dicevo:

– Facciamo l’ipotesi, mia cara, che noi fossimo già sposati, e che tu dovessi comprare una spalla di castrato per il desinare. Sapresti come comprarla?

Il viso della mia piccola Dora diventava scuro, e atteg-giava di nuovo la bocca a un bocciuolo di rosa, come se preferisse di chiudere la mia con un bacio.

– Sapresti come comprarla, cara? – ripetevo, dandomi quasi l’aria d’essere inflessibile.

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Dora pensava un poco, e poi rispondeva, con un accento che pareva quasi di trionfo: – Se il macellaio me la sa vendere, che necessità c’è che io la sappia comprare?

Che domande sciocche che mi fai!

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