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Forse non trova più nella sua padroncina quello che lo animava e lo ringiovaniva: ma si trascina lentamente, ha la vista debole, non ha più forza nelle gambe, e mia zia 1359

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si duole che invece d’abbaiarle contro come una volta, le si appressi, di sul letto di Dora, e le lecchi la mano.

Dora ci guarda sorridendo, ed è leggiadra . Non si lagna mai, non pronuncia una parola impaziente. Ci dice che siamo molto buoni con lei; che sa che il suo caro marito s’affatica a curarla; che mia zia non riposa, ed è sempre sveglia, attiva e gentile.

A volte i piccoli uccellini delle zie vengono a farle visita, e allora parliamo del giorno del nostro matrimonio e di tutto quel tempo felice.

Che strano riposo, che strana quiete par vi sia nella mia vita – e in tutta la vita, in casa e fuori – quando me ne sto nella tranquilla, ordinata, semioscura cameretta, con gli occhi di mia moglie-bimba rivolti verso di me, e le sue piccole dita strette intorno alla mano. Molte e molte ore io passo così seduto; ma in tutto quel tempo solo tre episodi mi son rimasti più vivi in mente.

È mattina; e Dora, tutta attillata dalle mani di mia zia, mi mostra come i suoi bei capelli si arriccino ancora sul guanciale, e come sian lunghi e lucenti, e come le piaccia di lasciarli fluttuare ad agio nella rete che ora essa porta.

– Non perché io ne sia orgogliosa, marito beffardo – ella dice, vedendomi sorridere – ma perché tu dicevi che erano tanto belli; e perché le prime volte che io cominciai a pensare a te, solevo andare a guardarmi nello 1360

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specchio, domandandomi se ti sarebbe piaciuto averne un ricciolo. Oh, quanto eri sciocco, Doady, quando io te ne diedi uno!

– Fu quel giorno che tu dipingevi i fiori che t’avevo offerto, Dora, e che ti dissi quanto ti volevo bene.

– Ah, ma non volli dirti allora – soggiunse Dora – che avevo pianto sui fiori perché credevo che realmente tu mi volessi bene! Quando guarirò, Doady, andremo a rivedere quei luoghi dove abbiamo fatto tante bambinate!

Rifaremo le stesse passeggiate. E non dimenticherò il povero papà.

– Sì, ci andremo, e saremo di nuovo felici. Devi far presto a guarire, cara.

– Oh, guarirò subito! Non vedi che sto già meglio?

È sera, e seggo sulla stessa sedia, accanto allo stesso letto, col medesimo volto fisso nel mio. Siamo stati per un po’ in silenzio, e v’è un sorriso su quel volto. Non porto più quel leggero carico su e giù per le scale, ora. Ella se ne rimane lì tutto il giorno.

– Doady!

– Mia cara Dora!

– Non penserai che io sia irragionevole, dopo che m’hai detto che il signor Wickfield sta poco bene, se ti dico che ho bisogno di veder Agnese. Ho proprio bisogno di vederla.

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– Le scriverò, mia cara.

– Le scriverai?

– Subito.

– Come sei buono! Doady, lasciami appoggiare al tuo braccio. Veramente, mio caro, non è un capriccio; non è una fantasia sciocca. Ho veramente, veramente bisogno di vederla.

– Ne son persuaso. Non ho che da dirglielo, e lei verrà certamente.

– Ti senti molto solo ora quando vai giù? – bisbiglia Dora, stringendomi con un braccio il collo.

– Come non dovrei sentirmi solo, amor mio, vedendo la tua poltrona vuota?

– La mia poltrona vuota! – Ella mi si stringe un poco, in silenzio. – E tu veramente senti la mia mancanza, Doady? – aggiunge guardando in su e sorridendo. –

T’accorgi della mancanza di Dora, che è così sciocca, stupida, stordita?

– Cuor mio, che altro c’è al mondo di cui possa sentir tanto la mancanza?

– Oh, marito mio, io son così contenta e pure così spiacente! – ella dice, stringendomisi più da presso, e attirandomi fra le sue braccia. Ella ride e singhiozza, e poi è calma e come felice.

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– Proprio felice! – esclama. – Solo manda ad Agnese i miei più affettuosi saluti, e dille che ho molto, molto bisogno di vederla, e poi non ho niente altro da desiderare.

– Tranne che di guarire, Dora.

– Ah, Doady! A volte penso... tu sai, sono stata sempre una sciocca... che non sarà mai.

– Non dire così, Dora! Amor mio, non dir così!

– Non lo direi, se potessi, Doady. Ma son molto felice; benché il mio caro marito si senta così solo, innanzi alla sedia vuota di sua moglie-bimba!

È notte; e io sono ancora con lei. Agnese è arrivata; è stata con noi una giornata e una sera. Lei, mia zia e io siamo stati dalla mattina tutti e tre con Dora. Non abbiamo parlato molto; ma Dora s’è mostrata perfettamente lieta e contenta. Ora siamo soli.

So ora che mia moglie-bimba ci lascerà? Così m’è stato detto; ai miei pensieri non è stato detto nulla di nuovo; ma son lungi dall’esser sicuro che questa verità mi sia entrata in cuore. Non m’è possibile persuaderlo. Molte volte oggi mi son ritirato a piangere solo, in un angolo.

Mi son ricordato: «Chi pianse per questa separazione fra i vivi e i morti». Ho ripassato in mente questa istoria piena di pietà e di grazia. Ho tentato di consolarmi e di rassegnarmi; ma credo di non esservi riuscito. No, non posso credere che verrà assolutamente la fine. Io tengo 1363

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la sua mano nella mia, il suo cuore nel mio; veggo il suo amore per me, vivo in tutta la sua forza. Non riesco a scacciare una pallida vaga ombra di speranza ch’ella sarà risparmiata.

– Ti debbo parlare, Doady. Ti debbo dire una cosa che da qualche tempo avevo in mente di dirti. Non mi ascolti?

– Sì che ti ascolto, cara.

– Perché non so che penserai, o che tu abbia potuto pensare, a volte. Forse tu hai pensato la stessa cosa. Doady caro, temo che io fossi troppo ragazza.

Metto la testa accanto alla sua sul guanciale, ed ella mi guarda negli occhi, e parla con un fil di voce. Gradatamente, mentre continua a parlare, sento, col cuore angosciato, che mi parla di sé in tempo passato.

– Temo, caro, che fossi troppo ragazza. Non solo negli anni, ma in esperienza, nei pensieri e tutto. Ero così sciocca! Credo che sarebbe stato meglio se ci fossimo voluti bene come due bambini, e poi ce ne fossimo dimenticati. Avrei cominciato a pensare che non avevo le qualità per maritarmi.

Tentai di trattenere le lagrime, e rispondere: «O Dora, amor mio, non meno di me per ammogliarmi».

Are sens