– La mia buona opinione non può rafforzare il suo affetto per certe persone ch’egli conosce – disse Agnese con un sorriso – ed egli non ha che farsene della mia opinione.
– Ma ditemela lo stesso – disse Dora, carezzevole –
se non vi dispiace.
Noi ridemmo tanto di Dora, che ci teneva molto a farsi voler bene, e Dora disse che io ero un’oca, e che non mi voleva bene affatto affatto, e la breve serata trascorse con ali veloci. Era l’ora di riprender l’omnibus.
Io stavo solo innanzi al fuoco, quando Dora venne furtivamente, prima che me n’andassi, a darmi quel solito 1088
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suo prezioso bacetto.
– Non pensi che se da molto tempo avessi avuto un’amica simile, Doady – disse Dora, scintillando dagli occhi, e con la manina affaccendata con un bottone della mia giacca – sarei stata molto più saggia?
– Amor mio – dissi – che dici mai!
– Tu credi che io dica una sciocchezza? – rispose Dora, senza guardarmi. – Ne sei sicuro?
– Sì, che ne sono sicuro.
– Ho dimenticato – disse Dora, ancora facendo girare con le dita il bottone – il tuo grado di parentela con Agnese.
– Nessuna parentela – risposi; – ma siamo cresciuti insieme come fratello e sorella.
– E non capisco per che ragione mai tu ti sia innamorato di me – disse Dora, cominciando a far girare un altro bottone della giacca.
– Forse perché non potevo vederti, e non volerti bene, Dora!
– Figurati che tu non mi avessi mai veduta! – disse Dora mettendo la mano su un altro bottone.
– Figurati che tu non fossi nata mai! – dissi ridendo.
Mi domandavo a che cosa ella stesse pensando, mentre guardavo con tacita ammirazione la morbida manina 1089
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che viaggiava lungo la fila dei bottoni della mia giacca, e la folta chioma che mi pendeva contro il petto, e le ciglia abbassate, che si levavano leggermente seguendo le dita che giocherellavano. Finalmente i suoi occhi guardarono nei miei, ed essa si levò in punta di piedi per darmi, più pensosa che mai, quel prezioso bacetto... una volta, due volte, tre... ed uscì dalla stanza.
Cinque minuti dopo ritornarono tutte insieme, e l’insolita inquietudine di Dora s’era bell’e dileguata. Ella aveva allegramente determinato, prima che ce ne andassimo, di farci assistere a tutti i giuochi di Jip. Ci volle qualche tempo (non tanto in ragione della loro varietà, quanto per la riluttanza dell’esecutore), e non erano ancora finiti all’ora della partenza. Vi fu una frettolosa ma affettuosa separazione fra Agnese e Dora: Dora avrebbe scritto ad Agnese (la quale non doveva badare alla forma delle lettere, diceva Dora), e Agnese doveva scrivere a Dora e ci fu poi un altro addio allo sportello della vettura, e un terzo allorché Dora, nonostante le rimostranze della signorina Lavinia, corse di bel nuovo verso lo sportello a rammentare ad Agnese di scriverle, e a scuotere i suoi riccioli verso di me già annidato accanto al cocchiere.
L’omnibus ci doveva deporre vicino a Covent Garden, dove si doveva prenderne un altro per Highgate. Ero impaziente di sentire in quel breve tratto Agnese lodare Dora. Ah, quali parole! Con quanto fervore e amorevolezza ella levò a cielo la bella creatura conquistata, con 1090
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tutte le sue innocenti grazie, alle mie più soavi cure.
Con quanto tatto mi parlò, senza averne l’aria, della responsabilità che m’ero assunto per quella cara orfana.
Non avevo mai, mai, voluto tanto bene a Dora come quella sera. Quando scendemmo dalla vettura, e ci avviammo alla luce delle stelle verso la casa del dottore, dissi ad Agnese che dovevo a lei quella felicità.
– Quando eravate seduta accanto a lei – le dissi – mi siete apparsa non soltanto come il mio, ma anche come il suo angelo tutelare; e così m’apparite ancora, Agnese.
– Un povero angelo – rispose – ma fedele. Il chiaro tono della sua voce, che mi andò dritto al cuore, mi spinse naturalmente a dire:
– La serenità che è una vostra dote particolare, e soltanto vostra, Agnese, m’è parsa oggi l’abbiate riacquistata tutta, e perciò ho cominciato a sperare che in famiglia siate più felice.
– Son più felice in me – ella disse: – ho il cuore calmo e leggero.
Diedi uno sguardo al viso sereno che fissava il cielo, e pensai che fossero le stelle a farlo apparir così nobile.
– A casa non vi è stato alcun cambiamento – disse Agnese, dopo pochi momenti.
– Nessun’altra allusione – dissi – a... Non vorrei rattri-starvi, Agnese, ma non posso fare a meno dal doman-1091
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darvelo... alla faccenda di cui parlammo, quando ci separammo l’ultima volta?
– No, nessuna – ella rispose.
– Ci ho pensato tanto da allora.
– Dovevate pensarci meno. Ricordate che io confido nell’affetto semplice e fedele. Non abbiate alcun timore per me, Trotwood – ella aggiunse, dopo un istante: – il passo che voi temete che io faccia, non lo farò mai.
Benché io creda che non l’avessi mai realmente temuto, tutte le volte che ci avevo meditato con fredda calma, l’assicurazione delle sue stesse labbra sincere fu un ineffabile sollievo per me. E glielo dissi candidamente.
– E quando questa visita sarà finita – dissi – ... giacché non potremo essere soli un’altra volta... quanto tempo passerà ancora, mia cara Agnese, per rivedervi di nuovo a Londra?