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– Credo, signorino Davy, di saper dove cercare.

– È già buio. Potremmo uscire insieme, e tentar di trovarla stasera stessa.

Egli acconsentì e si preparò ad accompagnarmi. Senza mostrare di osservar ciò che faceva, vidi che ordinava accuratamente la cameretta, apparecchiava una candela e l’occorrente per accenderla, dava una rimboccatina al letto, e finalmente traeva da un cassetto una veste piegata accuratamente, che già avevo visto indosso ad Emilia, con qualche altro indumento femminile e un cappello che egli mise su una sedia. Non fece alcuna allusione a quei preparativi, ed io tacqui come lui. Certamente quella veste aveva atteso l’Emilia molte e molte sere.

– Una volta, signorino Davy – egli disse, mentre discendevamo la scala – credevo che questa ragazza, Marta, fosse quasi come il fango sotto i piedi di Emilia. Che Dio mi perdoni, non è più così.

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Andando innanzi, un po’ per farlo parlare, un po’ per curiosità, gli chiesi notizie di Cam. Egli mi ripeté, quasi con le stesse parole d’una volta, che Cam era sempre lo stesso: «che lavorava senza risparmiarsi, ma che non si lagnava mai e si faceva voler bene da tutti».

Gli domandai che ne pensasse della condizione di spirito di Cam, riguardo all’autore della loro disgrazia.

Non c’era da temer qualche cosa da parte sua? Che avrebbe fatto, per esempio, Cam, se avesse incontrato Steerforth?

– Non so, signore – rispose. – Anch’io ci ho pensato parecchie volte, e non so che dire. Ma che importa?

Gli ricordai il giorno che avevamo vagato tutti e tre sulla spiaggia, dopo la scomparsa di Emilia.

– Ricordate – gli dissi – la maniera con cui guardava lontano sul mare, mormorando fra sé: «Chi sa come finirà?».

– Certo, che ricordo! – mi disse.

– E che credete che volesse dire?

– Signorino Davy – egli rispose – io me lo son domandato molte volte, e non ho saputo rispondere. E il più curioso si è, che, sebbene egli sia così buono, non oserei mai di domandarglielo. Non m’ha detto mai una parola meno che rispettosa, ed è probabile che ora non mi par-lerebbe diversamente; ma non è un’acqua tranquilla 1206

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quella dove dormono tali pensieri. È profonda, signore, e non se ne vede il fondo.

– Avete ragione – dissi – ed è questo che non mi lascia tranquillo.

– Come me, signorino Davy – egli soggiunse. – Ancor più, vi assicuro, mi dan da pensare le sue maniere strane; e tutto naturalmente per la medesima ragione.

Non so a quali estremi si lascerebbe trasportare, ma spero che quei due non s’incontreranno mai.

Avevamo oltrepassato Temple Bar. Tacendo oramai, e camminando al mio fianco, egli s’era concentrato nell’unico scopo della sua vita di devozione; e andava innanzi in quell’intenso raccoglimento di tutte le sue facoltà che gli avrebbe fatto trovare la solitudine in mezzo alla folla più rumorosa. Non eravamo lungi dal ponte di Blackfriars, quando egli volse la testa per mostrarmi con lo sguardo una donna che passava soletta dall’altro lato della via. Vidi subito che era quella che cercavamo.

Traversammo la strada, e stavamo per avvicinarla, quando pensai che ella forse sarebbe stata più disposta a dimostrarci la sua simpatia per la ragazza perduta, se le avessimo parlato in un punto più tranquillo, lungi dalla folla curiosa. Dissi perciò al mio compagno che era bene seguirla ancora, prima di rivolgerle la parola; seguendo in ciò anche certo mio indistinto desiderio di saper dove andasse.

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Egli acconsentì, e noi la seguimmo a distanza, non per-dendola mai di vista, non cercando mai di giungerle più da presso, giacché a ogni istante ella si guardava intorno. Una volta, si fermò per ascoltare una compagnia di musicanti, e ci fermammo anche noi Continuò poi ad andare per un bel tratto, e noi la seguimmo. Era evidente, dal suo passo, che era diretta in un punto determinato. Questo e lo studio ch’ella metteva a seguir le vie più frequentate e lo strano fascino di quel pedinamento, mi confermarono nel proposito di aspettare prima di avvicinarla. Finalmente svoltò in un vicolo oscuro e triste, dove non arrivavan più rumori né gente, e io dissi: «Ora possiamo parlarle»; e tutti e due, deliberatamente, affrettammo il passo.

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XLVII.

MARTA

Eravamo nel quartiere di Westminster. L’avevamo incontrata diretta alla nostra volta, ed eravamo tornati indietro per seguirla: presso l’abbazia di Westminster ella aveva lasciato lo strepito e i lumi delle vie frequentate. Andava innanzi così veloce, dopo esser uscita dalle due correnti di passanti che vanno e vengono sul ponte, che riuscimmo a raggiungerla solo nella stretta viuzza che rasenta il fiume presso Millbank. In quel momento la traversò, come per evitare i passi che ella udiva così da presso, e senza voltarsi neppure, accelerò ancor più la sua corsa.

La vista del fiume a traverso il cancello d’un androne, ove stavano al riparo alcuni furgoni, mi fece cambiar d’idea. Toccai il mio compagno senza parlare, e invece di traversar il vicolo, continuammo a seguire lo stesso lato, cercando di nasconderci nell’ombra delle case, ma non perdendo d’occhio Marta.

V’era, e v’è ancora, all’estremità di quel vicolo una tettoia in rovina, che probabilmente una volta serviva ai barcaiuoli per lo scarico dei battelli. È messa proprio nel punto dove cessa il vicolo, e comincia la strada tra una 1209

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fila di case e il fiume. Non appena vi giunse e vide il fiume, ella si fermò come se avesse raggiunto la mèta; e poi si mise a camminare lentamente lungo la riva, mirando intenta l’acqua.

Fino allora avevo creduto che ella andasse in qualche casa; anzi, avevo vagamente sperato che la casa potesse essere, chi sa mai, il rifugio della ragazza che si cercava.

Ma la vista del fiume, a traverso l’androne, m’avvertì segretamente che ella non sarebbe andata più oltre.

Tutto ciò che ci circondava, a quell’ora, era pauroso: opprimente, triste e solitario, come in nessun’altra contra-da di Londra. Non v’erano né banchine né case sulla strada melanconica presso il grande edificio della Prigione. Una specie di palude depositava il suo fango accanto ai muri del fabbricato. Erbacce e piante male odo-ranti s’aggrovigliavano su tutto il terreno acquitrinoso.

Da una parte, scheletri di case, sciaguratamente cominciate e non mai finite, si riducevano lentamente in polvere; dall’altra, un ammasso di mostruose ferramenta rugginose: caldaie a vapore, ruote, grue, tubi, fornaci, àncore, campane da palombaro, pale da mulino a vento, e non so quanti altri strani oggetti, accumulati non si sa da chi, che cercavano invano di nascondersi sotto la polvere e il fango che li ricoprivano. Il fracasso e il bagliore di varie strepitose officine sulla riva opposta parevano turbare ogni cosa intorno, ma non il fumo pesante che saliva ininterrotto dai loro fumaiuoli. Aperture e 1210

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passaggi fangosi serpeggiavano fra vecchi pilastri di legno tutti ricoperti d’un musco verdastro e di laceri affis-si dell’anno prima che promettevano un compenso a chi avesse raccolto cadaveri d’annegati lasciati nel limo dalla marea. Si diceva che lì presso fosse stata scavata una gran fossa per la sepoltura dei morti al tempo della Gran Peste; e sembrava che un sinistro influsso ne fosse deri-vato a tutto il vicinato: come se l’ammasso dei cadaveri si fosse gradatamente decomposto e formasse la sostanza di ogni fiotto di quell’acqua limacciosa.

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