Il pescatore Peggotty mi suggerì sottovoce un pensiero che era venuto anche a me; e io cavai il borsellino; ma non mi fu possibile farle accettare del denaro, né farmi promettere che l’avrebbe accettato un’altra volta. Cercai di farle comprendere che il pescatore Peggotty non era, considerata la sua condizione, povero; e che non era giusto, da parte nostra, incaricarla di quella ricerca senza un compenso. Ma ella fu incrollabile. E non valsero neanche le preghiere del pescatore Peggotty a scuoterla.
Ella lo ringraziò con riconoscenza, ma non si piegò.
– Troverò del lavoro – disse. – Tenterò.
– Almeno accettate qualche aiuto per il momento – dissi.
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– Non potrei fare per denaro ciò che ho promesso – ella rispose. – Anche se morissi di fame, non l’accetterei.
Darmi del denaro sarebbe togliermi la vostra fiducia, portarmi via l’oggetto che m’avete dato, privarmi della sola cosa al mondo che m’impedisce di gettarmi nell’acqua.
– In nome del gran Giudice – dissi – innanzi al quale voi e tutti noi dovremo comparire un giorno, levatevi dal capo questa orrida idea. Tutti possiamo far del bene, se vogliamo.
Ella tremò, ed era più pallida in viso quando rispose:
– Forse vi fu messo in cuore di salvare una sciagurata col pentimento. Non ardisco di pensarlo, non merito tanto. Se riuscissi a fare un po’ di bene, potrei cominciare a sperare; perché finora non ho fatto che del male. Per la prima volta, da lungo tempo, desidero di vivere, per de-dicarmi a ciò che mi chiedete. Non so altro, e non so dir di più.
Di nuovo ella frenò le lagrime che le inondavano gli occhi, e, stendendo la mano, e toccando il pescatore Peggotty, come per attingere in lui una virtù risanatrice, si allontanò per la strada deserta. Avendola osservata così da vicino, avevo visto che era emaciata e stanca, e che gli occhi affossati rivelavano privazioni e sofferenze.
La seguimmo a breve distanza, giacché la nostra strada era nella stessa direzione, finché non arrivammo nelle 1221
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vie frequentate e illuminate. Avevo messo tanta fiducia in lei, che mi parve giusto avvertire il pescatore Peggotty che seguirla più oltre sarebbe parso, forse, come cominciare con un atto di diffidenza. Egli, che partecipava della mia fiducia, fu dello stesso parere. Così, lasciando che Marta se n’andasse per la sua strada, ce n’andammo per la nostra verso Highgate. Egli mi accompagnò per un buon tratto; e quando ci separammo, con una preghiera per l’esito di questo nuovo sforzo, v’era in lui una nuova pensosa pietà che non mi fu difficile interpre-tare.
Era mezzanotte quando arrivai a casa. Stavo sulla soglia della porta, in ascolto della profonda voce di San Paolo, il cui suono arrivava fino a me fra una moltitudine di rintocchi d’orologio, quando notai con sorpresa che la porta del villino di mia zia era aperta, e che la pallida luce dell’ingresso si riversava fin sulla strada.
Immaginando che mia zia potesse essere stata ripresa da una delle sue antiche paure, e che stesse osservando il progresso d’un fantastico incendio in lontananza, m’inoltrai per chiamarla. Qual non fu la mia meraviglia scorgendo un uomo nel suo giardinetto!
Egli aveva un bicchiere e una bottiglia in mano, ed era occupato a bere. Mi fermai, tra il denso fogliame al di fuori, perché c’era la luna in cielo, ora, benché velata; e riconobbi l’uomo che una volta avevo creduto fosse un’allucinazione del signor Dick, e che una volta avevo 1222
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incontrato con mia zia nelle vie della città.
Non soltanto beveva, ma mangiava, e, mi parve, con ottimo appetito. Nello stesso tempo guardava con curiosità il villino, come se lo vedesse la prima volta. Dopo essersi curvato per deporre la bottiglia in terra, diede un’occhiata alle finestre, e poi si guardò intorno, con aria impaziente, come se avesse fretta d’allontanarsi.
La luce nel corridoio fu per un istante oscurata e ne uscì mia zia. Ella era agitata, e gli contò del denaro, che tin-tinnava, in mano.
– Che vuoi che me ne faccia di così poco? – egli domandò.
– Non posso dartene di più – rispose mia zia.
– Allora non me ne vado – egli disse. – Ecco, riprendite-lo..
– Briccone – rispose mia zia con gran commozione –
come puoi trattarmi così? Ma a che serve domandartelo?
Perché tu approfitti della mia debolezza. Se volessi liberarmi delle tue visite, non avrei che da abbandonarti alla sorte che meriti.
– Ebbene, perché non mi abbandoni alla sorte che merito? – egli disse.
– E hai il coraggio di domandarmi il perché? – rispose mia zia. – Che cuore che devi avere!
Egli se ne stette tristemente a far tintinnare il denaro e a 1223
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scuotere il capo, e finalmente disse:
– È tutto quello che intendi darmi, allora?
– È tutto quello che posso darti – disse mia zia. – Tu sai che ho sofferto delle gravi perdite, e che sono molto più povera d’una volta. Già te l’ho detto. Ora che hai avuto ciò che volevi, perché mi dai il dispiacere di rimanere ancora qui, e di farmi vedere ciò che sei diventato?
– Son diventato molto miserabile, se tu intendi questo –
egli disse. – Conduco una vita da cane.
– Tu m’hai spogliata della maggior parte di ciò che possedevo – disse mia zia. – Tu mi chiudesti il cuore per il mondo intero, per anni ed anni. Tu mi trattasti nella maniera più perfida, più ingrata, più crudele. Va’ e pentite-ne. Non aggiungere nuovi torti alla lunghissima lista di quelli che già m’hai fatti.
– Sì – egli rispose. – Molto bello, ciò che dici!... Benissimo. Per ora, debbo fare come meglio m’è possibile, immagino.
Nonostante la sua apparente insolenza, egli era umiliato dalle lagrime indignate di mia zia, e uscì scornato dal giardino. Facendo rapidamente due o tre passi, come se fossi arrivato in quel momento, lo incontrai sul cancello, ed entrai, mentr’egli ne usciva. Ci guardammo l’un l’altro da vicino al passaggio, con ostilità.