– Zia – dissi frettoloso: – ecco un’altra volta quel-1224
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l’uomo che viene a impaurirvi. Lasciate che gli parli io.
Chi è?
– Figlio mio – rispose mia zia, prendendomi per il braccio – entra, e per lo spazio di dieci minuti non mi dir più una parola.
Ci sedemmo nel salottino. Mia zia si ritirò dietro l’antica ventola verde, avvitata sulla spalliera della sedia, e di tanto in tanto, per un quarto d’ora, non fece che asciugarsi gli occhi. Poi uscì, e si venne a sedere accanto a me.
– Trot – disse mia zia – è mio marito.
– Vostro marito, zia? Io credevo che fosse morto!
– Morto per me – rispose mia zia – ma vivo.
Ammutolii di stupore.
– Betsey Trotwood – disse mia zia con compostezza
– non ha l’aria d’un soggetto capace di sentimenti d’amore; ma vi fu un tempo, Trot, che ella credeva cieca-mente a quell’uomo; un tempo, Trot, che ella gli voleva sinceramente bene; che non avrebbe indietreggiato innanzi a nessuna prova di devozione e di affetto. Egli la compensò col dilapidarle la fortuna e con l’infrangerle il cuore. Allora ella mise, una volta e per sempre, ogni sensibilità in una fossa, la ricolmò di terra e l’appiattì ben bene.
– Mia cara, mia buona zia!
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– Lo trattai – continuò mia zia, mettendo come il solito una mano sulle mie – con grande generosità. A tanta distanza di tempo, posso dire che lo trattai con grande generosità, Trot. S’era comportato con tanta crudeltà, verso di me, che avrei potuto ottenere una separazione favorevolissima ai miei interessi; ma non volli. Egli dis-sipò in un batter d’occhio ciò che gli avevo dato, precipitò sempre più in basso, sposò un’altra donna, credo, diventò un avventuriero, un giocatore e un truffatore.
Ciò che è diventato oggi, l’hai veduto. Ma era un bell’uomo... quando lo sposai... – disse mia zia, con un’eco nella voce del suo antico orgoglio e della sua ammirazione; – e lo credevo... com’ero sciocca!... l’onore in carnato.
Mi strinse la mano e scosse il capo.
– Egli ora non m’è più nulla, Trot, meno di nulla. Ma piuttosto che vederlo punito per i suoi misfatti (come gli avverrebbe, se s’aggirasse in questo paese), gli do più denaro che posso, quando riappare, perché se ne vada.
Ero una sciocca quando lo sposai; e a questo riguardo lo sono ancora, perché non vorrei vedere duramente trattata l’ombra delle mie illusioni. Perché gli volevo bene sul serio, Trot.
Mia zia cacciò un profondo sospiro, e si diede una lisciatina alla veste:
– Ecco, mio caro! – ella disse. – Ora tu sai il principio, il 1226
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mezzo, la fine, tutto minutamente. Di questo non parleremo più mai; e tanto meno ne parleremo con gli altri. È
la storia delle mie sciocchezze. Teniamocela per noi, Trot!
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XLVIII
AVVENIMENTI DOMESTICI
Lavoravo intensamente al mio libro, senza danno dello scrupoloso adempimento dei miei doveri di resocontista parlamentare; e quando fu pubblicato, conseguì un trionfo. Non mi lasciai inebbriare dalle lodi che mi riso-navano alle orecchie, nonostante mi facessero un gran piacere. Ho sempre osservato che chi ha qualche buona ragione per credere in se stesso, non si loda mai innanzi agli altri per farsi stimare. Perciò, per rispetto di me stesso, non misi superbia, e più mi piovevano lodi, e più m’industriavo di meritarle.
Non è mia intenzione, in queste carte, benché sostan-zialmente siano le memorie della mia vita, di fare la storia de’ miei romanzi. Essi parlano da sé, e li lascio parlare. Quando alludo ad essi, incidentalmente, lo faccio perché seguirono in parte il corso della mia carriera.
Avendo qualche ragione per credere, da quel momento, che la natura e il caso m’avevano destinato ad essere autore, coltivai con fiducia la mia vocazione. Senza quella fiducia, avrei rivolto la mia energia a qualche altra intrapresa. Avrei cercato di scoprire ciò che la natura e le circostanze avrebbero potuto farmi diventare, per far quel-1228
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lo e nient’altro.
Ero riuscito a scrivere, nei giornali e altrove, con tanto favorevole successo, che credetti ragionevolmente, dopo quel nuovo trionfo, d’avere il diritto di sottrarmi finalmente alla tristezza delle discussioni della Camera. Una bella sera, perciò, trascrissi per l’ultima volta la musica delle cornamuse parlamentari, per non sentirla mai più da allora; benché mi avvenga di riconoscere ancora il solito ronzìo nei giornali, senza alcuna variazione so-stanziale, tranne un po’ più di strepito, per tutta la durata della sessione.
Nel momento di cui parlo ero ammogliato, credo, da circa un anno e mezzo. Dopo un bel numero di esperimenti, avevamo rinunziato a dirigere noi la casa, come a un lavoro penoso. La casa si dirigeva da sé, e noi tenevamo un servitorello. La principale funzione di questo nostro salariato era di litigare con la cuoca; e a questo riguardo era un perfetto Whittington, senza il gatto, o la più lontana speranza di salire alla dignità di primo magistrato londinese.
Mi pare che egli vivesse in una grandine di coperchi di casseruole. Tutta la sua vita era una zuffa. Chiamava aiuto nelle ore meno acconce – come quando avevamo gente a desinare o c’era un piccolo ricevimento d’amici la sera – e usciva a precipizio dalla cucina inseguito da ferrei proiettili. Sentivamo la necessità di sbarazzarci di lui, ma egli c’era molto affezionato, e non se ne voleva 1229
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andare. Era un ragazzo piagnucoloso, e cacciava lamenti così strazianti quando s’accennava alla cessazione delle nostre relazioni, che eravamo obbligati a tenercelo. Non aveva più la madre... né alcuna specie di parente che mi fosse stato possibile di scoprire, tranne una sorella, che s’era imbarcata per l’America nel momento che lo avevamo raccolto dalle sue mani; e dovevamo tenercelo come un bambino scemo che ci fosse nato in casa. Egli aveva un’acuta percezione della propria disgraziata condizione, e con la manica della giacca si sfregava continuamente gli occhi, o si chinava per soffiarsi il naso nell’estremo cantuccio d’un fazzolettino, che non soleva mai tirare completamente di tasca, per farne il più che possibile economia e nasconderlo.
Quel disgraziato garzoncello, preso a nostro servizio in un’ora di cattiva ispirazione a sei sterline e dieci scellini all’anno, era per me una sorgente di continua ansietà. Lo vedevo crescere – e crescere come i fagioloni di Spagna