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Charles Dickens David Copperfield

– No, no; – dissi. – Noi cercheremo di fare del nostro meglio.

– E non mi dirai più che facciamo cattivi gli altri – aggiunse Dora carezzevolmente – è vero? Perché, sai, è una cattiveria!

– No, no – dissi.

– È meglio esser creduta sciocca che cattiva, no? – disse Dora.

– Meglio esser semplicemente Dora che chi sa che, in questo mondo.

– In questo mondo! Ah, Doady, è un posto largo!

Ella scosse il capo, volse i suoi gioiosi lucenti occhi su di me, mi baciò, scoppiò in un’allegra risata, e balzò su Jip, per mettergli il collare nuovo.

Così finì il mio ultimo tentativo per trasformare un poco Dora. Non ero stato bene ispirato a farlo; non potevo sopportare la mia saggezza solitaria; non potevo dimenticare che ella m’aveva chiesto di chiamarla la sua piccola moglie-bimba. Risolsi di far da me solo quanto era possibile per migliorar le cose tranquillamente; ma pre-vidi che il massimo sarebbe stato sempre poco, a non voler di nuovo far la parte del ragno completamente in agguato.

E l’ombra che volevo non fosse più fra noi, doveva gravare interamente sul mio petto. Come fu?

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L’antico sentimento della mia infelicità m’invase tutto.

Se mai era diverso, era più profondo; ma era più indefi-nito che mai, e lo sentivo come una nota di musica melanconica avvertita fiocamente nella notte. Amavo cara-mente mia moglie, ed ero felice; ma la felicità che avevo vagamente sperato, una volta, non era la felicità che godevo: mancava sempre qualche cosa.

In adempimento del patto fatto con me stesso, di tracciare in queste carte il racconto fedele della mia vita, di nuovo la scruto, accuratamente, e ne rivelo i segreti. Ciò che mi mancava, lo giudicavo ancora – e lo giudicai sempre così – come qualcosa che fosse stato il sogno della mia fantasia giovanile; che era incapace di avve-rarsi, e che comprendevo, come tutti gli uomini com-prendevano, con qualche sofferenza, non si poteva avverare. Ma che sarebbe stato molto meglio per me, se mia moglie avesse potuto aiutarmi un po’ più, e partecipare alle molte cure nelle quali non avevo compagni; e capivo che questo sarebbe potuto avvenire.

Fra queste due irreconciliabili conclusioni: l’una, che ciò che sentivo era generale e inevitabile; l’altra, che una circostanza m’era particolare e avrebbe potuto essere diversa; pencolavo curiosamente, senza che avessi un chiaro senso della loro aperta opposizione. Quando pensavo agli aurei sogni della giovinezza, che non possono incarnarsi, pensavo che l’adolescente godesse una beatitudine ignota all’adulto. E allora il tempo felice passato 1241

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con Agnese, nella cara vecchia casa, si levava innanzi a me, come un fantasma del passato, che avrebbe potuto ripetersi in un altro mondo, ma che non si sarebbe mai più rianimato in questo.

Talvolta un altro pensiero mi sorgeva in mente: che sarebbe potuto accadere, o che sarebbe accaduto, se Dora e io non ci fossimo mai conosciuti? Ma ella era così in-corporata con la mia esistenza, che quella fuggevole idea tosto si dileguava lungi da me come un filo che ondeggia nell’aria.

Io le volevo sempre bene. I sentimenti che qui ritraggo sonnecchiavano, e si svegliavano appena e si riaddor-mentavano nei più intimi recessi dell’anima. Non avevano alcuna evidenza in me; non avevano alcuna influenza in nulla che io dicessi o facessi. Portavo io il peso di tutte le nostre piccole cure e di tutti i miei progetti; Dora teneva le penne; e sentivamo entrambi che le nostre parti erano divise nel modo imposto dalle circostanze. Ella mi voleva veramente bene ed era orgogliosa di me; e quando Agnese scriveva poche calde parole nelle sue lettere a Dora, sul piacere e l’interesse coi quali i miei vecchi amici seguivano lo svolgersi della mia crescente fama, e leggevano il mio libro come sentendone dalla mia viva voce il contenuto, Dora le leggeva con lagrime di gioia nei fulgidi occhi, e diceva che io ero il suo caro e illustre maritino.

«Il primo erroneo impulso d’un cuore indisciplinato.» In 1242

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quel tempo, mi tornavano in mente queste parole della signora Strong: m’erano sempre presenti. Spesso mi svegliavo la notte con quelle parole in cuore: ricordo d’averle lette, nei sogni, scritte sui muri delle case.

Giacché m’ero accorto che anche il mio cuore era indisciplinato la prima volta che s’era acceso di Dora; e che se fosse stato disciplinato non avrebbe potuto sentire, dopo il matrimonio, ciò che sentiva nelle sue segrete prove.

«Non v’è peggiore disparità nel matrimonio del disaccordo in fatto di carattere e di idee». Neppure queste parole avevo dimenticate. M’ero sforzato di adattare Dora a me, e non c’ero riuscito. Non mi rimaneva che d’adattare me a Dora, di dividere con lei ciò che potevo, ed esserne soddisfatto; di portare sulle sole mie spalle tutto il carico che potevo e d’esserne soddisfatto. Questa era la disciplina alla quale tentai d’assoggettare il mio cuore, quando cominciai a pensare. E così il secondo anno fu molto più felice del primo; e, quel che è più, la vita di Dora fu tutta un raggio di sole.

Ma quell’anno non rafforzò la fibra di Dora. Avevo sperato che delle mani più delicate delle mie sarebbero venute ad aiutarmi a modellarle il carattere e che il sorriso d’un bimbo avrebbe mutato in donna mia moglie-bimba.

Invano. Lo spirito ondeggiò un momento sulla soglia della sua piccola prigione, e, ignaro di quella cattività, mise le ali.

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– Quando potrò correre di nuovo come prima, zia –

diceva Dora – farò correre Jip. Sta diventando pesante e pigro.

– Credo, mia cara – disse mia zia, lavorando tranquillamente accanto a lei – che abbia una malattia più grave della pigrizia. Son gli anni, Dora.

– Credete che sia vecchio? – disse Dora, stupita. – Mi sembra strano che Jip possa esser vecchio.

– È un inconveniente al quale tutti siamo soggetti, piccina, a misura che andiamo innanzi nella vita – disse mia zia, allegramente. – Io ne risento molto più di prima, te ne assicuro.

– Ma Jip – disse Dora, dandogli uno sguardo di compassione – anche il piccolo Jip! Oh, poverino!

– Spero che vivrà ancora a lungo, Fiorellino – disse mia zia carezzando sulla guancia Dora, che s’era sporta sull’orlo del canapè per guardar Jip, il quale rispose levandosi sulle zampe di dietro, e sforzandosi, nonostante l’asma, d’arrampicarsi sulla padroncina. – Quest’inverno farò foderare con la flanella la sua casetta, e son certa che la primavera prossima ne verrà fuori più fresco che mai, come i fiori. Maledetto cane! – esclamò mia zia. –

Se avesse più vite d’un gatto e fosse sul punto di perder-le tutte, credo che userebbe il suo ultimo respiro ad abbaiarmi contro!

Dora lo aveva aiutato a salire sul canapè; e di lì esso 1244

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