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abbaiava contro mia zia con tanta forza, che non poteva tenersi ritto e si doveva sgolare di sbieco. Più mia zia lo guardava, e più esso s’infuriava; giacché lei aveva da poco adottato gli occhiali, e Jip, chi sa per quale imper-scrutabile ragione, considerava gli occhiali un’offesa assolutamente personale.

Dora lo fece accucciare accanto a lei, a forza di persuasione; e quando l’ebbe acchetato, gli tirò un orecchio a traverso la testa, ripetendo pensosa: «Anche il piccolo Jip! Oh, poverino!»

– I suoi polmoni sono abbastanza buoni – disse allegramente mia zia – e le sue antipatie son sempre forti. Ha ancora molti anni innanzi a sé, certo. Ma se tu vuoi un cane con cui correre, Fiorellino, Jip non ti potrà servire più. Te ne darò io un altro.

– Grazie, zia – disse debolmente Dora – ma non lo vorrei.

– No? – disse mia zia, togliendosi gli occhiali.

– Non voglio altro cane che non sia Jip – disse Dora. –

Sarebbe fare un torto a Jip. E poi non potrei voler bene a un altro cane che non fosse Jip; perché non mi avrebbe conosciuto prima che mi maritassi, non avrebbe abbaiato a Doady la prima volta che venne a casa. Temo, zia, che non saprei voler bene a un altro cane.

– Certo – disse mia zia, carezzandole di nuovo la guancia. – Tu hai ragione.

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– Voi non vi siete offesa – disse Dora: – vero?

– Ma che, piccola sensitiva! – esclamò mia zia, chinandosi affettuosamente su di lei. – Pensare che io possa of-fendermene!

– No, no, non pensavo veramente così – rispose Dora –

ma io sono un po’ stanca, e quando sono stanca divento sciocca... sapete, son sempre un po’ sciocca; ma parlando di Jip divento più sciocca ancora. Esso m’ha conosciuta in tutto ciò che m’è accaduto, non è vero, Jip? E

non potrei metterlo da parte, ora che è mutato... non è vero, Jip?

Jip pareva s’annidasse nella padroncina, e le leccava dolcemente la mano.

– Tu non sei così vecchio, Jip, da abbandonare la tua padrona! – disse Dora. – Noi possiamo farci compagnia ancora un poco.

La mia leggiadra Dora! Quando venne giù a desinare la domenica seguente, e si mostrò così lieta di vedere il caro Traddles (che desinava sempre con noi la domenica), noi pensammo che si sarebbe messa a correre come prima, fra pochi giorni. Ma ci si diceva: «Aspettate altri pochi giorni», e ancora: «Aspettate altri pochi giorni»; ma ella non correva più, né passeggiava. Aveva sempre un aspetto leggiadro e gioioso; ma i piedini, che solevano danzare così agilmente intorno a Jip, rimanevano immobili.

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Cominciai a portarla da basso ogni mattina, e di sopra ogni sera. Essa mi s’abbrancava al collo, e rideva intanto, come se lo facessi per una scommessa. Jip abbaiava e saltellava d’intorno, e andava innanzi, e si voltava sul pianerottolo, anelante, per vedere se andavamo su. Mia zia, la migliore e la più allegra delle infermiere, ci seguiva, semovente massa di scialli e di guanciali. Il signor Dick non avrebbe ceduto ad anima viva la candela accesa che portava in mano. Traddles rimaneva spesso in fondo alla scala, guardando in su e assumendosi l’incarico dei lieti saluti di Dora alla più cara ragazza del mondo. Noi formavamo veramente una lieta processione, e mia moglie-bimba vi appariva la più lieta di tutti.

Ma, a volte, quando me la prendevo fra le braccia e la sentivo sempre più leggera, m’invadeva un’indescrivibile tristezza, come se mi avvicinassi a una ignota regione glaciale che m’intirizziva la vita. Evitavo di definire questo sentimento, e cercavo di nasconderlo a me stesso, finché una sera, che m’incombeva più uggioso, dopo aver sentito mia zia gridare il saluto d’addio: «Buona sera, Fiorellino», sedetti al tavolino, e piansi pensando:

«Oh, che nome fatale, e come il fiore appassisce sul suo stelo!»

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XLIX.

UN MISTERO

Ricevei una mattina per posta, datata da Canterbury e indirizzata al Doctor’s Commons, la seguente lettera che lessi con una certa sorpresa.

«Mio caro signore,

«Circostanze indipendenti dalla mia volontà hanno, per un considerevole lasso di tempo, rotto un’intimità che quelle rare occasioni, datemi dai miei doveri professionali, di contemplare le scene e gli eventi del passato, co-loriti dalle prismatiche sfumature della memoria, m’ha sempre largito, come sempre deve continuare a largirmi, dolci commozioni di non comune natura. Questo fatto, mio caro signore, congiunto con la segnalata dignità che i vostri meriti vi hanno conquistata, mi vieta dal presu-mere di aspirare alla libertà di rivolgermi al compagno della mia giovinezza con l’appellativo familiare di Copperfield! È sufficiente sapere che il nome al quale in questo momento ho l’onore di riferirmi sarà sempre pre-ziosamente custodito fra i monumenti della nostra casa (alludo agli archivi relativi ai nostri antichi pensionanti, conservati dalla signora Micawber) con sentimenti di stima personale che sono di sincera affezione.

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«Non tocca a me, piombato, in conseguenza d’una serie d’errori personali e d’una fortuita successione di eventi nefasti, come una nave in una voragine (se m’è permesso di usare un’immagine così nautica), prender la penna e rivolgermi a voi... non tocca a me, ripeto, trovandomi in simili circostanze, adottare il linguaggio delle felicita-zioni o delle congratulazioni. Lo lascio a più pure ed abili mani.

«Se le vostre più importanti occupazioni vi permettono di scorrere questi caratteri imperfetti fino a questo punto... il che potrà o non potrà avvenire, secondo le circostanze... voi naturalmente vi chiederete qual oggetto mi muova nel rivolgervi la presente missiva. Permettetemi di dirvi che io mi spiego pienamente la giustezza di questa domanda, e procedo a soddisfarla: premettendo che l’oggetto di questa mia non è di natura pecuniaria.

«Senza più direttamente alludere a quella qualsiasi la-tente abilità che io possa avere di trattare la folgore o dirigere contro qualcuno la fiamma divoratrice e vendicatrice, mi si permetta di osservare, incidentalmente, che le mie più fulgide visioni si son per sempre dileguate...

che la mia pace è infranta e ogni mia facoltà di godimento distrutta... che il mio cuore non è più al suo posto... e che io non cammino più eretto e a fronte alta innanzi al mio simile. Il bruco è nel fiore. La coppa è av-velenata fino all’orlo. Il verme è all’opera, e tosto avrà roso la sua vittima. Più presto sarà, meglio. Ma non vo-1249

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glio fare digressioni.

«Messo in una condizione mentale di particolare sofferenza, che è perfino oltre il limite del leniente influsso della signora Micawber, che pure lo spande nella triplice qualità di donna, di moglie e di madre, è mia intenzione di fuggir lungi da me stesso per un breve periodo e di dedicare, un buon riposo di quarantotto ore a rivisitare nella metropoli i luoghi che già furono teatro della mia felicità. Fra quei porti ove io ho conosciuto la tranquillità domestica e la pace dello spirito, i miei piedi si diri-geranno naturalmente verso la prigione di King’s Bench.

Nel riferire che io sarò (a Dio piacendo) all’esterno del muro meridionale di quel luogo di incarcerazione per processi civili, dopodomani alle sette di sera in punto, il mio scopo in questa comunicazione epistolare è raggiunto.

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