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Mia zia batté le mani, e noi sussultammo tutti come degli ossessi.

– La lotta è finita! – disse il signor Micawber, gestico-lando violentemente col fazzoletto, e stendendo le braccia di tanto in tanto, come se nuotasse in mezzo a difficoltà sovrumane. – Io non farò più questa vita. Sono uno sciagurato, separato da tutto ciò che può fare tollerabile la vita. In servizio di quel briccone d’inferno sono stato 1266

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sotto l’influsso d’un tabù. Restituitemi mia moglie, re-stituitemi i figli, rimettete Micawber al posto del disgraziato che oggi va intorno coi piedi in queste scarpe, e domani ditemi di inghiottire una sciabola, e lo farò con appetito. Non avevo visto mai un uomo così eccitato.

Tentai di calmarlo, per fargli dir qualche cosa di più sensato; ma non volle sentir nulla e si eccitò sempre più.

– Io non metterò più questa mano nella mano di nessuno

– disse il signor Micawber, ansando, soffiando e singhiozzando, come se lottasse con una corrente d’acqua

– se non avrò fatto a pezzi quell’o... quell’odioso serpente di Heep!... non accetterò più l’ospitalità di nessuno, se non avrò deciso il Vesuvio a vomitar la sua lava su quello sce... su quello scellerato di Heep... Non potrò mandar giù il minimo rinfresco... sotto questo... specialmente il ponce... se prima non avrò cavato gli occhi a quel ladro... a quel bugiardo di Heep... Non vedrò nessuno... non dirò nulla... non dormirò in nessuna parte...

se prima non avrò ridotto in polvere... in atomi impalpa-bili quell’ipocrita infernale... quel farabutto immortale di Heep!

Temei un momento che il signor Micawber stramazzas-se lì morto. La foga con cui pronunciava quelle frasi, che quasi lo soffocavano, l’ardore e la velocità con cui s’avvicinava al nome li Heep, pronunciato con veemenza poco meno che meravigliosa, erano terribili; ma quando si lasciò cadere su una sedia, tutto in sudore e 1267

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fumante, e guardò in giro, con una faccia su cui s’avvi-cendavano tutti i colori dell’arcobaleno, e un’infinita successione di bernoccoli che gli apparivano in fretta sul collo e poi andavano a germogliargli in fronte, aveva tutta l’aria d’essere sotto un colpo mortale. Feci l’atto di soccorrerlo, ma m’allontanò con un cenno della mano e continuò:

– No, Copperfield!... Nessuna comunicazione fra noi... se prima la signorina Wickfield... non avrà ottenuto riparazione del male fattole da quel briccone consumato di Heep. (Io son persuaso ch’egli non avrebbe avuto la forza di pronunziare tre parole, se non fosse stato per la meravigliosa energia che gl’infondeva la vicinanza di quel nome)... Sia un segreto inviolabile... per tutti... senza alcuna eccezione... Oggi a otto, all’ora della colazione... che tutti i qui presenti... compresa vostra zia... e questo gentilissimo signore ... si trovino all’albergo di Canterbury... dove sarò anch’io con mia moglie...

Canteremo in coro il ricordo dei bei giorni passati... e smaschererò quell’infame, quello scellerato di Heep.

Non ho più nulla da dire... nulla più da sentire... Corro immediatamente... non posso stare in compagnia... sulle peste di quel dannato traditore di Heep!

Con quest’ultima ripetizione, nella quale superò tutti i suoi sforzi anteriori, della parola magica che l’aveva sostenuto fino a quel momento, il signor Micawber uscì a precipizio dal villino di mia zia, lasciandoci in un tale 1268

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stato di eccitazione, d’aspettazione e di meraviglia, che ci ridusse a una condizione poco migliore della sua. Ma anche allora, egli non poté resistere alla sua passione epistolare; perché mentre eravamo ancora nel colmo della nostra eccitazione, della nostra attesa e della nostra meraviglia, la seguente nota pastorale mi fu portata da un vicino caffè, dov’era stata scritta:

«Segretissima e confidenziale.

«Mio caro signore,

«Chieggo che mi permettiate di fare, per mezzo vostro, le mie scuse alla vostra eccellente zia per le mie escandescenze di poco fa. L’esplosione d’un vulcano a lungo compresso ha seguito una lotta interna che si può più facilmente indovinare che descrivere.

«Confido d’essere stato abbastanza intelligibile nel darvi l’appuntamento per oggi a otto nell’albergo di Canterbury, dove una volta io e la signora Micawber avemmo l’onore d’unire la nostra voce alla vostra per ripetere i famosi accenti del doganiere immortale nutrito e allevato sull’altra riva del Tweed.

«Compiuto questo dovere, e fatto quest’atto di riparazione, il solo che possa mettermi in grado di sostenere lo sguardo del mio simile, non sarò più veduto. Doman-derò semplicemente di esser deposto in quel luogo d’asilo universale, dove:

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dopo il terrestre viaggio

nei loro avelli angusti

dormono i padri adusti

dell’umile villaggio.

con questa semplice iscrizione:

«WILKINS MICAWBER.»

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L.

IL SOGNO DEL PESCATORE PEGGOTTY

S’AVVERA

Erano già passati alcuni mesi dalla sera del nostro colloquio con Marta sulla riva del fiume. Non l’avevo più veduta, ma ella aveva parlato col pescatore Peggotty parecchie volte. Il suo zelante intervento non aveva giovato ancora a nulla: da quanto egli m’aveva detto, non s’e-ra ancora arrivati a rintracciare alcuna traccia d’Emilia.

Confesso che cominciavo a disperare di ritrovarla, e gradatamente a persuadermi sempre più che fosse morta.

Ma la fede del pescatore Peggotty rimaneva inconcussa.

A quanto sapevo – e credo che nella sincerità del suo cuore non mi celasse nulla – non una sola volta dubitò, disperò di trovarla. La sua pazienza non mostrava mai un istante di stanchezza. E, per quanto io tremassi per l’angoscia che lo attendeva il giorno che quella sua solida certezza fosse dovuta crollare in un soffio, v’era in essa un carattere così religioso, e così teneramente espressivo della profonda purezza d’una nobile natura, che il rispetto e la venerazione che io gli portavo aumentavano ai miei occhi ogni giorno.

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