bagaglio, e la diligenza stessa trascinata e spinta in un angolo dai mozzi di stalla. E nessuno ancora appariva per reclamare il ragazzo pieno di polvere, giunto da Blunderstone, Suffolk.
Più solo di Robinson Crusoe, che non aveva nessuno a osservarlo e a veder che era solo, entrai nell’ufficio, e, invitato dall’impiegato in funzione, passai dietro il banco, andando a sedermi sulla bilancia che pesava i bagagli. Colà, mentre guardavo i pacchi, gl’involti e i libri, e respiravo l’odor delle stalle (d’allora associato sempre nel mio pensiero con quella mattina), cominciò a sfilarmi in mente una serie di tremende riflessioni. Dato che nessuno fosse venuto a cercarmi, per quanto tempo mi sarebbe stato permesso di starmene lì? Sarei potuto stare fin che le mie spese non avessero superato i sette scellini? Dovevo dormir la notte in uno di quegli sgabuzzini di legno, per le merci, con gli altri bagagli, e lavarmi alla pompa del cortile, la mattina; o sarei stato messo fuori la sera, col permesso di ritornare la mattina appresso, all’ora dell’apertura dell’ufficio, ad aspettare che si venisse a cercarmi? Ammettendo che vi fosse un errore nel mio caso, e che il signor Murdstone avesse immaginato un progetto simile per liberarsi di me, che cosa avrei dovuto fare? Se mi fosse stato permesso di rimanere fino ad esaurimento dei sette scellini, non avrei potuto sperare di rimanere il giorno che avrei cominciato a morir di fame. Era facile comprendere che la cosa non sarebbe stata gradita agli avventori, e che si caricava 133
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quel Qualche Cosa d’Azzurro dello sborso delle spese mortuarie. Se me ne andavo subito e tentavo di ritornare a casa, come poter mai trovar la via, come poter sperare d’arrivar così lontano, come poter fidarsi d’altri che di Peggotty, dato che ci arrivassi? Se mi fossi presentato dallo speciale funzionario più vicino, e mi fossi offerto come soldato, o marinaio, ero tanto piccino che probabi-lissimamente non mi avrebbe preso. Questi pensieri, e un centinaio d’altri simili, mi diedero una specie di febbre e mi riempirono di sgomento. Ero più che mai sbigottito, quando entrò un uomo e bisbigliò qualche cosa all’impiegato, il quale subito mi trasse dalla bilancia, facendola pendere da una parte, e mi spinse verso di lui, come se fossi stato pesato, comprato, consegnato e pagato.
Uscendo dall’ufficio, con la mano nella mano di quella mia nuova conoscenza, le diedi furtivamente uno sguardo. Era un giovane magro e sparuto, con le guance in-fossate e un mento nero quasi come quello del signor Murdstone; ma la rassomiglianza non andava più oltre, perché era senza fedine, e, i capelli, invece di lucenti, li aveva rugginosi e secchi. Portava un vestito, nero an-ch’esso, piuttosto rugginoso e secco, corto di maniche e di gambe, e una cravatta che non era molto pulita. Non credetti allora, e non credo ora, che quella cravatta fosse tutta la biancheria che egli aveva addosso, ma ne era l’unico campione visibile.
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– Voi siete il ragazzo nuovo? – mi disse.
– Sì, signore – risposi.
Supposi d’esserlo, ma non lo sapevo.
– Io sono uno degli insegnanti di Salem House – egli disse.
Gli feci un inchino, e mi sentii molto sgomento. Provavo tanta vergogna di parlare di un oggetto così volgare quale un baule a un dotto insegnante di Salem House, che ci eravamo allontanati alquanto dal cortile della diligenza prima che avessi l’ardire di ricordargli il mio.
Tornammo indietro, dopo che umilmente ebbi affacciato l’idea che in appresso avrebbe potuto essermi utile; ed egli disse all’impiegato che il vetturale era incaricato d’andare a pigliarlo a mezzogiorno.
– Di grazia, signore – dissi, quando fummo giunti forse alla stessa distanza di prima – è lontano?
– È dalla parte di Blackheath – disse.
– E Blackheath è lontano, signore? – domandai timidamente.
– C’è un bel tratto – disse. – Andremo con la diligenza.
Son circa sei miglia.
Ero così debole e stanco, che l’idea di durare ancora per sei miglia senza rifocillarmi mi parve impossibile. Mi feci animo di dire che non avevo toccato cibo in tutta la sera, e che gli sarei stato molto obbligato, se mi avesse 135
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permesso di comprarmi qualche cosa da mangiare. Si sorprese di questo – lo veggo fermarsi improvvisamente e guardarmi – e, dopo avermi considerato per alcuni istanti, disse che voleva visitare una vecchietta che abitava non lungi di là, e che mi consigliava di comprare del pane, o qualche altra cosa che mi piacesse di sano.
Poi avrei fatto colazione in casa della vecchietta, che ci avrebbe potuto dare un po’ di latte.
Allora mi fermai innanzi alla vetrina di un fornaio, e dopo che io ebbi fatto un gran numero di proteste successive di comprare tutto ciò che di meglio presentava la bottega, ci decidemmo in favore d’un bel pane bruno, che mi costò sei soldi. Poi, nel negozio di un magazzino alimentare, comprai un uovo e una fetta di lardo; cosa che mi fece avere tanti spiccioli di resto dal secondo dei miei scellini lucenti, che giudicai Londra una città molto a buon mercato. Fatte le nostre provviste, arrivammo, in mezzo a un gran fracasso che m’assordò tutto e mi fece male alla testa, su un ponte che certamente era il London Bridge (credo che egli me lo dicesse, ma ero quasi addormentato), e poi all’abitazione della vecchietta, che faceva parte d’un asilo di carità, come si vedeva bene all’aspetto e all’iscrizione di una lapide sull’ingresso, la quale lo diceva fondato per venticinque donne povere.
L’insegnante di Salem House sollevò il saliscendi di uno fra parecchi usciolini neri, tutti simili, con un finestrino a piccoli vetri da un lato e un altro finestrino a piccoli 136
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vetri al di sopra; ed entrammo nella casetta di una di quelle povere vecchie. Ella era occupata a soffiare nel fuoco per far bollire una casseruolina. Vedendo entrare l’insegnante, si fermò col soffietto sulle ginocchia, e mormorò qualcosa che mi parve sonasse come: «Carletto mio!»; ma vedendo entrare anche me, si levò, e stropicciandosi le mani fece confusamente l’atto di un inchino.
– Potete preparare un po’ di colazione a questo signorino, per favore? – disse l’insegnante di Salem House.
– Se posso... – disse la vecchia. – Sì, che posso.
– Come sta oggi la signora Fibbitson? – disse l’insegnante, volgendo lo sguardo a un’altra vecchia in un seggiolone accanto al fuoco, la quale formava un tal fagotto di panni, che anche ora non so come non fossi andato per errore a sedermele addosso.
– Ah, non si sente bene – disse la prima vecchia. – È in uno dei suoi brutti giorni. Se per disgrazia oggi dovesse spegnersi il fuoco, credo veramente che si spegnerebbe anche lei, e non si ravviverebbe più.
Giacché essi si misero a guardarla, mi misi a guardarla anch’io. Sebbene il giorno fosse caldo, sembrava ch’ella non pensasse ad altro che al fuoco. Sospettai che fosse gelosa perfino della casseruola; e ho ragione di credere che la guardasse di malocchio perché mi faceva fervidamente il servigio di scaldarmi l’uovo e di cuocermi il 137
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lardo; tanto vero, che durante quelle preparazioni culi-narie, in un momento che nessuno l’osservava, la vidi, con mia gran meraviglia, minacciarmi col pugno. Entrava il sole per il finestrino, ma ella sedeva volgendogli la schiena, riparando il fuoco come se lo stesse amorosa-mente a covare per tenerlo caldo, invece di esserne scaldata, e fissandolo con sguardi di diffidenza. Finita la preparazione della mia colazione, la liberazione del fuoco le diede tanta gioia, che si mise a ridere forte e in verità non molto melodiosamente.
Sedetti innanzi al pane, all’uovo e alla fetta di lardo, con una scodella di latte accanto, e feci una squisitissi-ma colazione. Mentre ancora l’assaporavo con gioia, la vecchia della casa disse all’insegnante:
– Avete portato il flauto?