– Che debbo dirvi? – ella rispose, col suo radioso sorriso. – Papà sta bene. Voi ci trovate qui, cheti e tranquilli in casa nostra: le nostre inquietudini si sono dileguate; casa nostra è nostra. Sapendo questo, caro Trotwood, sapete tutto.
– Tutto, Agnese? – dissi.
Mi guardò con un’espressione di palpitante meraviglia.
– Non v’è nient’altro, sorella? – dissi.
Il colore, che le era fuggito, riapparve, e poi si dileguò di nuovo. Sorrise, con una tranquilla melanconia, mi parve; e scosse la testa.
Avevo cercato di condurla a ciò che mia zia aveva accennato; perché, per quanto mi dovesse essere penoso ricever quella confidenza, dovevo disciplinarmi il cuore, e fare tutto il mio dovere. M’accorsi, però, ch’ella era impacciata, e non insistei.
– Avete molto da fare, cara Agnese?
– Con la mia scuola? – ella disse, levando gli occhi, con 1494
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tutta la sua bella serenità.
– Sì. V’affatica molto, non è vero?
– È una fatica così piacevole – ella rispose – che sarei quasi un’ingrata a chiamarla con questo nome.
– Nulla di ciò che è buono, vi è difficile – dissi.
Ella impallidì di nuovo, e ancora una volta, nell’atto che abbassava la testa, le scorsi lo stesso melanconico sorriso.
– Aspetterete per vedere mio padre – disse Agnese, serenamente – e passerete la giornata con noi. Volete dormire nella vostra antica camera? Noi sempre la chiamiamo vostra.
Non potevo rimanere, perché avevo promesso a mia zia di esser di ritorno la sera, ma potevo passare la giornata con loro.
– Io debbo essere prigioniera per un po’ – disse Agnese
– ma ecco qui i vecchi libri, Trotwood, e la vecchia musica.
– Anche i vecchi fiori son qui – dissi, guardando in giro
– o almeno le vecchie specie.
– Il mio piacere è stato – rispose Agnese sorridendo – di tenere, durante la vostra assenza, tutto come soleva essere quando eravamo bambini. Perché penso che eravamo felici allora.
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– Sì che eravamo felici – dissi.
– E tutto ciò che mi ricordava mio fratello – disse Agnese, volgendo lietamente su me i suoi sguardi affettuosi –
m’ha fatto la più cara compagnia. Anche questo – e mi mostrò il panierino pieno di chiavi, sospeso al suo fianco – par che tintinni una specie di vecchia canzone.
Ella sorrise di nuovo, e uscì per la porticina per la quale era entrata.
Era mio dovere di conservarmi con cura religiosa quell’affetto di sorella. Era tutto ciò che mi rimaneva, ed era un tesoro. Se avessi scosso pur una volta le fondamenta della sacra fiducia e della consuetudine, in virtù delle quali m’era dato, l’avrei perduto senza più speranza di ricuperarlo. Mi persuasi fermamente di questo. Più le volevo bene, e più doveva starmi a cuore di non dimenticar questo.
Andai a spasso per la città; e rivedendo ancora una volta il mio antico avversario il macellaio – diventato una guardia, col bastone, simbolo d’autorità, appeso alla parete della bottega – andai a dare una capatina al luogo dove l’avevo battuto, e colà meditai sulla signorina Shepherd, e la maggiore delle signorine Larkins, e su tutte le mie futili passioni e simpatie e antipatie di quel tempo. Pareva che di quel tempo non sopravvivesse altro che Agnese, la quale splendeva su di me come una stella, e diventava sempre più lucente.
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Al mio ritorno, il signor Wickfield era arrivato da un giardino che egli aveva un paio di miglia fuori di città, e che l’occupava quasi ogni giorno. Lo trovai come mia zia me lo aveva descritto. E ci mettemmo a desinare, con una mezza dozzina di bambine, ed egli non sembrava che l’ombra del suo bel ritratto sul muro.
La tranquillità e la pace che io associavo, da tanto tempo, in mente mia, a quel luogo, lo circondavano ancora.
Finito il desinare, siccome il signor Wickfield non volle più il vino, e io come lui lo rifiutai, andammo di sopra, dove Agnese e le sue piccole allieve cantarono e sonaro-no, e lavorarono. Dopo il tè, le bambine ci lasciarono, e noi tre c’intrattenemmo parlando del passato.
– Io vi trovo – disse il signor Wickfield, scotendo il capo canuto – molte ragioni di rimpianto... di profondo rimpianto, e di amaro pentimento Trotwood, voi lo sapete bene. Ma se potessi cancellare il passato, non lo can-cellerei.
Lo credevo facilmente, solo guardando il bel viso che gli era a fianco.
– Cancellerei con esso – egli continuò – il ricordo della pazienza e della devozione, della fedeltà e dell’amore di mia figlia, che debbo sempre tener presenti, anche dimenticando me stesso.
– Comprendo, signor Wickfield – gli dissi dolcemente. –
Io la venero... Io la... io l’ho sempre tenuta in venerazio-1497
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