– Se ella educa le bambine che ha d’attorno perché siano come lei – disse mia zia con una commozione che le riempiva gli occhi di lagrime – Dio sa che la sua vita sarà bene spesa! Utile e felice, com’ella disse quel giorno. Come può essere altrimenti che utile e felice?
– Ha Agnese qualche... – dissi con un filo di voce, che 1489
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era più pensiero che parola.
– Bene? eh? che cosa? – disse mia zia vivamente.
– Qualche pretendente? – dissi.
Una ventina – disse mia zia, con una specie d’indignazione orgogliosa. – Si sarebbe potuta maritare venti volte, mio caro, da che te ne sei andato.
– Certo – dissi – certo. Ma ha qualche pretendente che sia degno di lei? Agnese non può sposare il primo venuto.
Mia zia rimase a meditare per un po’ col mento sulle mani. Levando lentamente gli occhi nei miei, disse:
– Io sospetto che abbia una passione segreta, Trot.
– Ed è ricambiata? – dissi.
– Trot – rispose mia zia gravemente – io non posso dirtelo. Io non ho il diritto di dirti neanche quello che ti ho detto. Non si è mai confidata con me, ma lo sospetto.
Mi guardava con tanta ansia e con tanta intensità (la vedevo perfino tremare) che mi persuasi più che mai ch’ella aveva seguito il filo dei miei pensieri. Feci un appello a tutte le mie risoluzioni, di tante notti e di tanti giorni, a tutte le lotte sostenute fra me e me.
– Se fosse così – cominciai – e spero che sia...
– Io non so se sia o non sia – disse mia zia in modo brusco. – Tu non ti devi regolare sui miei sospetti. Tu devi 1490
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tenerli segreti. Forse non hanno fondamento. Io non ho il diritto di parlarne.
– Se fosse così – ripetei – Agnese un giorno me lo direbbe. Una sorella alla quale ho confidato tante cose, zia, non avrebbe ragione di non confidarmi tutto.
Mia zia ritrasse i suoi occhi dai miei, con la stessa lentezza con la quale li aveva posati nei miei, e se li coperse pensierosa con la mano. Poi pian piano mise l’altra mano sulla mia spalla; e così rimanemmo entrambi, ripensando al passato, senza dire un’altra parola, finché non ci separammo, dandoci la buona notte.
Partii a cavallo la mattina per il luogo che mi ricordava i miei antichi giorni di scuola. Non posso dire che fossi veramente felice nella speranza di riportare una vittoria su me stesso, e neanche nella prospettiva di riveder fra poco il viso di lei.
La ben nota strada fu subito attraversata, e giunsi nelle chete vie dove, si può dire, ogni pietra m’era familiare.
Andai a piedi verso la vecchia casa, e poi m’allontanai, e guardando, mentre passavo, attraverso la finestra bassa la stanza a torretta dove prima Uriah Heep, e dopo il signor Micawber erano soliti lavorare, vidi che era stata trasformata in un piccolo salottino, e che non v’era più lo scrittoio. Del resto, la casa aveva lo stesso aspetto di pulizia e d’ordine di quando l’avevo vista la prima volta. Pregai la piccola domestica che mi fece entrare, di 1491
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dire alla signorina Wickfield che un signore mandato da un suo amico all’estero voleva parlarle; e fui condotto (avvertito di badare ai gradini, io che li conoscevo così bene) per la vecchia solenne scalinata nel salotto, rimasto tal quale lo avevo veduto l’ultima volta. I libri che avevo letti insieme con Agnese erano negli scaffali; e il leggio dove avevo studiato le lezioni era sullo stesso cantuccio di tavolino. Tutti i piccoli mutamenti, intro-dotti al tempo degli Heep, erano spariti. Ogni oggetto era come soleva essere nel tempo felice che non era più.
Nel vano d’una finestra, guardai attraverso l’antica via alle case di fronte, ricordando come le avevo contemplate nei giorni di pioggia, dopo che m’ero stabilito a Canterbury; e come solessi fantasticare sulle persone che apparivano a questa o a quella finestra, e seguirle con gli occhi su e giù per le scale, mentre le donne andavan battendo gli zoccoli lungo i muri, e la pioggia uggiosa cadeva in linee trasversali, e traboccava dalle grondaie, rifluendo nella via. Il sentimento col quale solevo mirare i vagabondi che arrivavano zoppicanti in città in quelle sere di pioggia, nell’ora del crepuscolo, coi loro fardelli sulla schiena, pendenti dalla punta d’un bastone, mi ritornava fresco alla memoria, carico, come allora, dell’odore della terra molle, e delle foglie umide e dei rovi, e della sensazione dello stesso vento che m’aveva soffiato addosso nel mio viaggio faticoso.
Il rumore della porticina che s’apriva nel muro rive-1492
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stito di legno mi fece balzare e voltare. Gli occhi belli e sereni di lei incontrarono i miei nell’atto ch’ella veniva verso di me. Si fermò e si mise la mano al seno, e io me la strinsi nelle braccia.
– Agnese! Mia cara Agnese! Forse ho fatto male ad arrivare così all’improvviso.
– No, no! Sono così felice di rivedervi, Trotwood!
– Cara Agnese, son io felice di rivedervi di nuovo!
Me la strinsi al cuore, e per un po’ tacemmo entrambi.
Poi ci sedemmo l’uno accanto all’altro, e il suo viso d’angelo era rivolto verso il mio col benvenuto che avevo sognato, vegliando e dormendo, per anni interi.
Era così cara, così bella, così buona... le dovevo tanta gratitudine, m’era così diletta, che non potevo esprimere ciò che sentivo. Tentai di benedirla, tentai di ringraziarla, tentai di dirle (come avevo fatto nelle lettere) quale influenza ella avesse avuto su di me; ma tutti i miei sforzi furono vani. Il mio amore e la mia gioia erano muti.
Con la sua dolce tranquillità ella calmò la mia agitazione; mi ricondusse al tempo della nostra separazione; mi parlò di Emilia, da lei visitata molte volte in segreto; mi parlò teneramente della tomba di Dora. Con l’infallibile istinto del suo cuore soave, toccò le corde della mia memoria delicatamente e armoniosamente, senza farne stridere nessuna. Io potevo ascoltare la loro mesta e lontana 1493
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musica, senza soffrir d’alcun ricordo da lei ridestato. E
come soffrirne, quando il cuore di lei era fuso in tutto, il cuore del diletto angelo della mia vita?
– E voi, Agnese – dissi finalmente – parlatemi di voi.
Non mi avete quasi detto nulla di voi, in tutto questo tempo.