tunatamente anche la maggior parte dei ragazzi arrivavano tristi e abbattuti, e meno disposti a schiamazzare alle mie spalle, di quanto avessi temuto. Certo, alcuni mi ballavano intorno come selvaggi indiani, e la maggior parte non potevano resistere alla tentazione di fingere che io fossi un cane, e di carezzarmi e lisciarmi, per non farsi mordere, e dire: «Accuccia, accuccia!»
chiamandomi con nomi canini. Fra tanti estranei, naturalmente, questo era umiliante; e mi faceva versare qualche lagrima; ma m’ero aspettato, dopo tutto, di peggio.
Ma non fui considerato come ammesso formalmente nel convitto se non quando arrivò G. Steerforth. Alla presenza di questo ragazzo, maggiore di me di almeno sei anni, che era ritenuto assai istruito ed era molto bello, fui condotto come al cospetto di un magistrato. Sotto una tettoia della palestra del cortile, egli da me volle essere informato minutamente dei particolari del mio castigo, e si compiacque di esprimere la sua opinione, dicendo che era «una bella vergogna»; cosa che da quel momento mi legò per sempre a lui.
– Quanto denaro hai, Copperfield? – disse, camminan-domi a fianco, dopo aver giudicato la mia condizione in quei termini.
Io gli dissi sette scellini.
– Faresti meglio a darli a me perché te li tenga – egli 154
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David Copperfield
disse. – Se non ti dispiace, però. Se no, no.
M’affrettai a seguire il suo amichevole consiglio, e aprendo il portamonete di Peggotty glielo rovesciai nella mano.
– Vuoi spendere qualche cosa ora? – mi chiese.
– No, grazie – risposi.
– Forse ti piacerebbe di spendere un paio di scellini subito per una bottiglia di spumante da bere insieme nel dormitorio? – disse Steerforth. – Tu appartieni al mio dormitorio, credo.
Certo non ci avevo pensato prima, ma dissi di sì, che mi sarebbe piaciuto.
– Benissimo – disse Steerforth. – Forse sarei tentato di credere che non ti dispiacerebbe di spendere qualche altro scellino in pasticcini alle mandorle?
Dissi di sì, che non mi sarebbe dispiaciuto.
– E forse un altro scellino in biscotti, e un altro in frutta, eh? – disse Steerforth. – Mi sembra, caro il mio Copperfield, che tu ti slanci troppo.
Sorrisi, perché egli sorrideva, ma nell’intimo ero turbato.
– Bene! – disse Steerforth. – Ci sforzeremo di arrivare più lontano che ci sarà possibile; questo è tutto. Farò di te quanto consentiranno le mie forze. Posso uscire 155
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quando voglio,e porterò il bottino di contrabbando.
Con queste parole si mise il denaro in tasca, e gentilmente mi raccomandò di non temer di nulla; ché tutto sarebbe andato a meraviglia.
Mantenne la parola, e tutto andò bene, se si poteva dir bene ciò che una voce segreta mi avvertiva esser quasi tutto male – giacché pensavo di fare un cattivo uso delle due mezze corone di mia madre, benché avessi, prezioso risparmio, conservato il pezzo di carta che le avvolgeva.
Quando andammo su per coricarci, egli presentò l’intero valore dei sette scellini, e lo sparpagliò sul letto nel chiarore della luna, dicendo:
– Ecco, piccolo Copperfield, hai un festino da principe.
Alla mia età non potevo pensare di fare gli onori della tavola, mentre era presente lui: soltanto a pensarlo la mano mi tremava. Lo pregai quindi di accordarmi il favore di far lui le parti, preghiera ch’egli esaudì, anche perché la mia domanda fu sostenuta da tutti gli altri ragazzi che erano nella camera. Si sedette sul mio guanciale e distribuì i viveri – con perfetta equità, debbo aggiungere – versando lo spumante in un bicchierino senza piede, di sua proprietà privata. Io gli sedevo a sinistra, e gli altri erano aggruppati intorno a noi, sui letti vicini e sul pavimento.
Come ricordo bene quella nostra seduta, e quella nostra conversazione sottovoce, o per meglio dire, quella 156
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loro conversazione e la mia attenzione rispettosa: il chiarore della luna entrava nella camera, dalla finestra, dipingendola pallidamente sul pavimento; e la maggior parte di noi se ne stava al buio, tranne quando Steerforth immergeva un fiammifero nella sua scatola di fosforo, per cercar qualche cosa sulla tavola, versandoci addosso un chiarore azzurrastro che subito svaniva. Provo ancora quel certo pauroso sentimento ch’era effetto del buio, del mistero dell’orgia, del sussurro in cui tutto si diceva, e ascolto tutto ciò che mi si racconta con un vago senso di solennità e di sgomento che mi fa lieto della vicinanza dei compagni, e mi spaventa (benché io finga di ridere), quando Traddles afferma di vedere uno spettro nell’angolo.
Quante cose appresi della scuola e di tutto ciò che le si riferiva! Appresi che il signor Creakle non aveva procla-mato senza ragione il suo diritto d’essere Tartaro; ch’egli era il più rigoroso e severo degli insegnanti; che non passava giorno che non bastonasse, a destra e a sinistra, i ragazzi, caricandoli come un soldato di cavalleria, e dando botte da orbo, spietatamente. Che egli non sapeva altro che l’arte di bastonare, essendo più ignorante (diceva G. Steerforth) del più ignorante ragazzo della scuola; che era stato, parecchi anni prima, un piccolo mercante di luppoli in un sobborgo di Londra, ed aveva tentato l’industria scolastica dopo aver fatto bancarotta coi luppoli e aver dato fondo alla dote della signora Creakle. E molte altre cose della stessa specie, che io mi do-157
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mandavo come si sapessero.
Appresi che l’uomo dalla gamba di legno, il quale si chiamava Tungay, era un barbaro ostinato, che aveva prima collaborato col signor Creakle nel negozio dei luppoli, ed era poi entrato nel ramo scolastico, perché, si diceva fra i ragazzi, s’era rotto la gamba in servizio del signor Creakle, l’aveva aiutato in traffici disonesti, ed era a parte di tutti i suoi segreti. Appresi che, con l’unica eccezione del signor Creakle, Tungay considerava l’intero istituto, gli insegnanti e gli alunni come suoi nemici naturali, e che l’unica gioia della sua esistenza era di mostrarsi cattivo e maligno. Appresi che il signor Creakle aveva un figlio, il quale aveva visto di malocchio Tungay, e che, assistendo il padre nella direzione della scuola, aveva detto una volta che la disciplina veniva applicata bestialmente, e perfino osato, si credeva, di fargli qualche rimostranza, protestando quindi per lo sperpero dei beni di sua madre. Appresi che il signor Creakle lo aveva perciò cacciato di casa, e che la signora e la signorina Creakle erano ridotte d’allora in uno stato pietoso.
Ma la cosa più strana che appresi intorno al signor Creakle si fu che c’era nel convitto un ragazzo sul quale non s’avventurava mai a metter la mano, e che quel ragazzo era G. Steerforth. Lo stesso Steerforth mi confermò la cosa, dichiarando che avrebbe voluto vederlo mettergli le mani addosso. Interrogato da un ragazzo di carattere 158
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pacifico (non io) che cosa avrebbe fatto, se quegli gli avesse messo le mani addosso, egli immerse un fiammifero nella scatola del fosforo, con l’intenzione di ri-schiarare la risposta, e dichiarò che avrebbe cominciato con l’atterrarlo assestandogli sulla fronte un colpo con la boccia d’inchiostro che si vedeva sulla cappa del camino. Noi restammo per qualche tempo senza fiato al buio.