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infisso nel tappo, tutte le volte che si stimava che avessi bisogno di rinfresco. A volte, per renderlo uno specifico migliore, vi spremeva gentilmente del succo d’arancia, o aggiungeva un po’ di zenzero, o scioglieva una goccia di menta; e benché io non possa asserire che, dopo queste manipolazioni, la fragranza del vino fosse più squisita, o che esso costituisse appunto la bevanda che si sarebbe scelta come tonico nell’ultimo istante della serata e nel primo della mattinata, io, commosso di tanta delicata attenzione, me lo assaporavo con un vero sentimento di gratitudine.

Mi pare che c’indugiassimo dei mesi con Peregrino Pickle, ed altri mesi con gli altri romanzi. Son certo che l’istituzione non vacillò mai per difetto di storie, e il vino durò quasi quanto la materia. Il povero Traddles – non penso mai a quel ragazzo se non con una strana voglia di ridere, e con le lagrime agli occhi – in generale faceva la parte del coro, mostrando di sbellicarsi dalle risa alle parti comiche, e di tremar dalla paura quando nel racconto v’era qualche brano di carattere impressionan-te. Spessissimo, questo contegno mi sconcertava. La maggior sua piacevolezza era, ricordo, di fingere di non poter fare a meno di battere i denti, tutte le volte che sentiva il nome d’un Alguazil nelle avventure di Gil Blas; e rammento che quando Gil Blas incontrò il capitano dei ladri in Madrid, quel burlone disgraziato finse tale accesso di terrore, che fu sentito dal signor Creakle, il quale stava in vedetta nel corridoio, e solennemente 171

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bastonato per cattiva condotta nel dormitorio.

Tutto quello che c’era in me di romantico e di fantastico fu sviluppato da quell’abitudine di narrare tanti racconti al buio; e da questo lato credo che la cosa non mi sia stata proficua. Ma l’essere vagheggiato come una specie di balocco nella mia camera, e la consapevolezza che quella mia dote venisse divulgata fra i ragazzi, e mi facesse, benché fossi il più piccolo, centro della loro curiosità, stimolavano i miei sforzi. In una scuola governa-ta con la più spietata crudeltà, diretta o no da un somaro, non è probabile s’apprenda molto. Quei ragazzi, credo, erano in generale i più ignoranti di quanti mai ne furono al mondo: erano troppo maltrattati e troppo tormentati per imparar checché fosse; non potevano far di più per progredire di quanto si potesse fare in una vita di costante dolore, di martirio e di infelicità. Ma la mia piccola vanità e l’aiuto di Steerforth mi spronavano in qualche modo; e senza farmi evitare gran che, se mai, in fatto di castighi, mi fecero, per tutto il tempo che rimasi in quel luogo, un’eccezione alla regola generale, tanto che riuscii a raccogliere qua e là qualche briccica d’istruzione.

E in ciò mi giovai dell’aiuto del signor Mell, che per me aveva una simpatia che ricordo con gratitudine. Mi faceva male osservare che Steerforth, pronto in ogni occasione a umiliarlo, lo trattasse con sistematico disprezzo.

Tanto più mi faceva male, in quanto avevo narrato subi-172

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to a Steerforth che m’era impossibile non mettere a parte d’un segreto, così come lo mettevo a parte d’una torta e di altre tangibili possessioni, delle due vecchie che il signor Mell m’aveva condotto a visitare; e temevo sempre che Steerforth se ne uscisse a rinfacciarglielo.

Né io né il signor Mell avevamo pensato minimamente, quella prima mattina che feci colazione e m’addormentai al suono del flauto e all’ombra delle penne di pavone, alle conseguenze che sarebbero derivate dalla presenza in quell’ospizio della mia poco importante persona. Ma quella visita ebbe un effetto imprevedibile; e, nel suo genere, molto grave.

Un giorno che il signor Creakle era rimasto in camera sua indisposto, cosa che naturalmente diffuse la più viva gioia in tutta la scuola, regnò in tutta la mattinata la maggior confusione. La contentezza e la soddisfazione dei ragazzi li aveva resi stranamente indocili; e benché il temuto Tungay apparisse due o tre volte con la sua gamba di legno e annotasse i nomi dei principali colpe-voli, la cosa non fece molta impressione: tutti sapevano che, ben disciplinati o no, la mattina dopo sarebbero stati castigati lo stesso; tanto valeva darsi buon tempo oggi.

S’era di sabato, ed era mezza vacanza. Ma siccome il chiasso nella palestra avrebbe disturbato il signor Creakle e il tempo non era propizio a una passeggiata, nel pomeriggio fummo mandati in classe e occupati in compiti più facili dei soliti, preparati per l’occasione. Era il 173

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giorno in cui il signor Sharp andava a farsi arricciare la parrucca; così il signor Mell, al quale erano sempre affi-dati i lavori più penosi, quali che si fossero, dirigeva solo la scuola.

Se l’immagine d’un toro o d’un orso potesse riferirsi a un uomo della mitezza del signor Mell, direi, ripensando all’infernale fracasso della scolaresca in quel pomeriggio, che egli mi faceva appunto l’effetto d’uno di quegli animali circondato da un migliaio di cani. Lo riveggo poggiare la testa dolente alla mano ossuta sul libro che aveva davanti sul tavolino, penosamente sforzandosi di continuare l’ingrata fatica, fra mezzo a un pandemonio che avrebbe dato la vertigine al Presidente della Camera dei Comuni. Molti saltavano entro e fuori dei loro posti; alcuni ridevano, altri cantavano, altri chiacchieravano, altri ballavano, altri urlavano; altri pestavano i piedi, e altri gli turbinavano intorno, digrignando i denti, facendo smorfie, contraffacendolo dietro le spalle e innanzi agli occhi; contraffacendo la sua povertà, le sue scarpe, l’abito, la madre, tutto ciò che gli apparteneva, senza rispetto alcuno.

– Silenzio! – gridò il signor Mell, levandosi improvvisamente e battendo il tavolino col libro. – Che significa tutto questo? È impossibile sopportarlo. È da impazzire.

E perché vi comportate così con me?

Aveva battuto il tavolino col mio libro. Ritto accanto a lui, seguendo l’occhiata da lui data in giro, vidi tutti i ra-174

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gazzi fermarsi, alcuni meravigliati, altri impauriti e altri forse pentiti.

Il posto di Steerforth era in fondo, all’estremità opposta della lunga stanza. S’era fermato con la schiena contro la parete, e le mani in tasca, e guardava il signor Mell con la bocca atteggiata a un fischio, quando il signor Mell lo vide.

– Silenzio, Steerforth! – disse il signor Mell.

– Silenzio voi – disse Steerforth, diventando rosso. – A chi parlate?

– Sedetevi – disse il signor Mell.

– Sedetevi voi – disse Steerforth – e badate ai fatti vostri.

Ei disegnò qualche risolino; si sentì qualche applauso; ma il signor Mell era così pallido, che si fece immediatamente silenzio; e un ragazzo che di dietro aveva cominciato a contraffargli la madre, cambiò di proposito e finse di voler temperare una penna.

– Se voi credete, Steerforth, che io non sia a cognizione dell’influenza che avete su qualcuno qui – (egli mi mise la mano in testa, forse senza neanche saperlo) – o che io non vi abbia visto, pochi minuti fa, eccitare i vostri compagni più piccoli a ingiuriarmi in tutti i modi, pigliate un grosso abbaglio.

– Io non mi do il disturbo di pensare minimamente a voi 175

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– disse Steerforth, con freddezza; – così non piglio un abbaglio né grosso, né piccolo.

– E quando approfittate della vostra condizione di beniamino qui, signore – continuò il signor Mell, con le labbra visibilmente tremanti – per insultare un gentiluomo...

– Un che?... E dov’è? – disse Steerforth. Qui qualcuno gridò: «Vergogna, Steerforth! È troppo!» Era Traddles, che il signor Mell fece immediatamente tacere, ordinandogli di tener la lingua a posto.

– ... per insultare uno che non è fortunato nella vita, e che non vi fece mai il benché minimo torto, signore; quando siete grande abbastanza e intelligente abbastanza per capire che non ci sono ragioni per insultarlo –

disse il signor Mell, con le labbra sempre più tremanti –

voi commettete una vile e ignobile azione. E ora potete sedervi o stare in piedi, come meglio vi aggrada. Copperfield, continuate.

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