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– di osservare che sei di natura antisocievole. Non è possibile che io tolleri che sotto gli occhi miei si sviluppi un carattere così fatto, senza tentare tutti i mezzi per migliorarlo. Tu devi sforzarti di modificarlo. Noi dobbiamo sforzarci di modificartelo.

– Scusatemi, signore – io balbettai – tornando a casa non avevo l’intenzione di mostrarmi di cattivo umore.

– Non ricorrere a una bugia, Davide – egli rispose, e con tanto impeto, che vidi mia madre sporgere il braccio tremante come per interporsi fra noi. – A mostrare la tua ostinazione, ti sei appartato orgogliosamente in camera tua. E hai continuato a rimanervi quando dovevi essere qui. Tu sai ora, una volta per sempre, che voglio che tu stia qui e non lì. Voglio inoltre che tu sia ubbidiente. Tu mi conosci, Davide. Voglio che la mia volontà sia fatta.

La signorina Murdstone parve gorgogliare di soddisfazione.

– Voglio che la tua condotta verso di me – egli continuò 216

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– e verso Giovanna Murdstone, e verso tua madre, sia rispettosa, zelante e docile. Non voglio che, a volontà e a capriccio d’un ragazzo, si fugga questa stanza, come se fosse infetta. Siedi.

Sembrò che desse il comando a un cane, e come un cane obbedii.

– Un’altra cosa – egli disse. – Osservo che ti compiaci di compagnie basse e volgari. Tu non devi allearti con le persone di servizio. La cucina non ti farà migliore in tutti quei punti che hanno bisogno di correzioni.

Della donna che ti protegge, non dico nulla... dacché tu, Clara – volgendosi a mia madre in tono più basso – hai per lei, in forza di vecchie abitudini e illusioni profondamente radicate, delle debolezze non ancora superate.

– La più strana aberrazione! – esclamò la signorina Murdstone.

– Dico soltanto – egli ripigliò, volgendosi a me –

che io disapprovo la tua predilezione per la compagnia di Peggotty, la fantesca, e che la devi abbandonare.

Ora, Davide, tu m’hai compreso, e sai quali saranno le conseguenze alle quali andrai incontro, se non fai di tutto per obbedirmi alla lettera.

Le sapevo bene – forse meglio di quanto egli credesse, riguardo alla mia povera madre – e gli ubbidii alla lettera. Non mi rifugiai più nella mia camera; non andai più da Peggotty; ma me ne stetti tediato nel salotto un 217

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giorno dopo l’altro, in attesa della sera e dell’ora d’andare a letto.

A quale tremendo sforzo non fui assoggettato, sedendo nello stesso atteggiamento per ore ed ore, timoroso di muovere un braccio o una gamba, per non farmi sgridare per la mia irrequietezza dalla signorina Murdstone (che lo faceva anche per meno), e timoroso perfino di guardare in giro per non accendere in lei un’occhiata di malevolenza o di disamina che trovasse una nuova ragione di riprensione nella mia! Che intollerabile noia sedere ascoltando il tic-tac dell’orologio, guardando le lucenti perline d’acciaio che infilava la signorina Murdstone, domandandomi se si sarebbe una buona volta maritata, e se mai, a quale specie d’uomo infelicissimo, contando i reparti nella modanatura della cappa del camino; ed errando lontano, con gli occhi verso il soffitto, fra le volute e i disegni bizzarri della carta sulla parete!

Che passeggiate facevo, andando solitario per fangosi sentieri l’inverno, col cattivo tempo, portandomi da per tutto appresso quel salotto, e con esso il signore e la signorina Murdstone: un carico mostruoso che dovevo pur sostenere, un incubo diurno al quale non era possibile sottrarsi, un peso che m’ingombrava lo spirito, e l’ot-tundeva!

Che pasti facevo silenzioso e imbarazzato, sentendo sempre che v’era una forchetta di troppo, la mia; un appetito di troppo, il mio; una sedia di troppo, la mia; 218

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qualcuno di troppo, io!

Che sere, quando si accendevan le candele, e attenden-dosi che io m’occupassi, m’immergevo, non avendo il coraggio di leggere un libro divertente, in qualche arcigno e tremendo trattato d’aritmetica; quando adattavo le tavole dei pesi e misure a motivi musicali, come quello di «Rule Britania» o «Away with Melancholy»; quando esse non volevano star ferme per essere imparate, ma giravano inutilmente per la mia testa disgraziata, entran-domi da un orecchio e uscendomi dall’altro!

A che sbadigli e a che sopori mi abbandonavo, nonostante ogni sforzo per vincerli! Con che sbalzi mi destavo da quei sonnellini di contrabbando! Che lacuna mi pareva d’essere, alla quale nessuno badava, e che impacciava tutti; e con che sollievo sentivo la signorina Murdstone salutare il primo rintocco delle nove di sera, per mandarmi a letto!

Così si trascinarono i giorni, finché non giunse la mattina che la signorina Murdstone mi disse: «Ecco passato l’ultimo giorno!», dandomi l’ultima tazza di tè delle vacanze.

Non mi dispiaceva di andarmene. Ero caduto quasi in uno stato d’abbrutimento; e mi rianimavo un po’ pensando a Steerforth, benché dietro di lui si profilasse il signor Creakle. Apparve di nuovo Barkis al cancello, e di nuovo la signorina Murdstone disse nel suo tono d’am-219

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monimento: «Clara!», quando mia madre si chinò su di me per dirmi addio.

Baciai lei e il bambino, e avevo una pena in cuore; ma non mi dispiaceva d’andar via; perché la lontananza tra noi c’era, e il distacco c’era, ogni giorno più. E non è tanto l’abbraccio che mi diede, fervido come poteva darmelo, che mi rivive nello spirito, ma ciò che lo seguì.

Ero nel carro del vetturale quando sentii chiamarmi da lei. Mi voltai, e la vidi sola, sul cancello del giardino, sollevare sulle braccia il bambino perché lo contemplas-si. Il tempo era freddo ma calmo; e non un capello le si mosse in testa, non una piega nella veste, nell’atto di guardarmi intenta e di sollevare il bambino.

Così la perdetti. Così la vidi dopo, nei miei sogni in convitto – fantasma silenzioso accanto al mio letto –

guardarmi con lo stesso volto intento, e col bambino sollevato nelle braccia.

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IX.

GENETLIACO MEMORABILE

Sorvolo su tutto ciò che avvenne in convitto, fino al-l’anniversario della mia nascita che cadeva nel mese di marzo. Salvo che Steerforth vi era ammirato più che mai, non ricordo nulla. Egli doveva andar via alla fine del semestre, se non prima, e ai miei occhi era più vivace e indipendente che per il passato, e perciò più simpatico che mai; ma oltre questo non rammento nulla. Par che il gran ricordo che contrassegna quel tempo nel mio spirito abbia disperso ogni traccia d’altra memoria intorno, per esistere solo.

M’è anche difficile credere che passasse un periodo di due mesi interi tra il mio ritorno a Salem House e l’arrivo di quel genetliaco. Posso comprender solo che fu così, perché dovette essere così; altrimenti mi sarei persuaso che non vi fosse stato intervallo di sorta, e che un avvenimento avesse seguito immediatamente l’altro.

Come ricordo bene il tempo che faceva quel giorno! Riveggo la nebbia che avvolgeva tutto fuori; e attraverso la nebbia il ghiaccio, candido e spettrale; sento i miei capelli coperti di brina appiccicarmisi alle guance; guardo in tutta la sua lunghezza la scuola, oscura prospettiva 221

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rotta qua e là da qualche candela che scoppietta nella mattinata nebbiosa; e il fiato dei compagni che si svolge e fuma nell’aria gelida, mentre ci soffiamo sulle dita e battiamo i piedi sul pavimento.

Fu dopo la colazione, e dopo che eravamo rientrati dalla palestra, che il signor Sharp entrò e disse:

– Davide Copperfield è atteso nel salotto. Aspettavo un paniere da parte di Peggotty, e a quell’ annunzio m’ illu-minai tutto. Parecchi compagni mi fecero ressa intorno, raccomandandomi di non dimenticarli nella distribuzione del contenuto del paniere, e uscii svelto e gioioso dal mio posto.

– Non correre, Davide – disse il signor Sharp. – C’è tempo, ragazzo mio, non correre.

Are sens