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David Copperfield

Trascorsa la mattina in inutili ricerche, sedevo sul gradino d’una bottega chiusa, in un angolo della piazza del mercato, progettando di andare in traccia degli altri paesi accennati da Peggotty, quando a un cocchiere che veniva alla mia volta, con la sua vettura, cadde la coperta del cavallo. Certa aria di bontà nel suo viso, mentre io la raccoglievo e gliela porgevo, m’incoraggiò a chiedergli se potesse dirmi dove abitava la signora Trotwood; benché avessi ripetuto tante volte la stessa domanda, che questa quasi mi morì sulle labbra.

– Trotwood – egli disse. – Aspetta. Il nome lo conosco.

Una vecchia?

– Sì – dissi – piuttosto.

– Che cammina ritta e impettita?

– Sì – dissi – credo proprio così.

– Porta una borsa – egli disse: – una grossa borsa: è burbera, e par ti voglia mangiare?

Mi sentii mancare, riconoscendo l’indubbia accuratezza di questa descrizione.

– Bene, allora ti dirò – egli disse. – Se vai fin là – indicava con lo staffile le alture – e tiri dritto finché arrivi a certe case di fronte al mare, certamente la troverai. E

siccome credo che non ti darà nulla, ecco per te.

Accettai grato il dono di due soldi, e mi comperai un pane. Sgretolandolo per via, andai nella direzione indi-337

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catami dal cocchiere, e camminai un buon pezzo senza arrivare alle case di cui m’aveva parlato. Finalmente me ne vidi alcune di fronte; e, avvicinandomi, entrai in una botteguccia (dove si vendeva di tutto) e chiesi se si avesse la bontà di dirmi dove abitava la signora Trotwood. M’ero rivolto a un uomo dietro il banco, occupato a pesare il riso a una ragazza; ma questa, prendendo la domanda per sé, si voltò immediatamente.

– La mia padrona? – disse. – Che volete da lei?

– Per piacere – risposi – ho bisogno di parlare a lei in persona.

– Per chiederle l’elemosina, certo – rispose la ragazza.

– No – dissi – no. – Ma ricordando a un tratto che in realtà non avevo altro scopo, tacqui confuso, con la faccia che mi ardeva.

La domestica di mia zia, come da ciò che mi aveva detto supposi che fosse, pose il riso in un panierino ed uscì dalla bottega, dicendomi che potevo seguirla, se desideravo sapere dove abitava la signora Trotwood. Non me lo feci ripetere, benché fossi, in quel momento, così agitato e sconvolto, che le gambe non mi reggevano. Seguii la ragazza, e presto arrivammo a una graziosissima villetta con degli allegri terrazzini, che aveva di fronte un quadratino di terreno inghiaiato e pieno di fiori, diligentemente coltivati e deliziosamente fragranti.

– Questa è la casa della signora Trotwood – disse la ra-338

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gazza. – Ora lo sapete, e questo è tutto ciò che posso dirvi. – E così dicendo, entrò svelta in casa, come per scuotersi di dosso la responsabilità della mia comparsa, lasciandomi accanto al cancello a guardar sconsolato oltre le punte di ferro la finestra del salotto, dove una cortina di mussolina in parte abbassata, una gran ventola verde e tonda piantata sulla soglia, un tavolino e una poltrona, mi fecero pensare che mia zia potesse in quell’istante esser seduta lì dentro in terribile atteggiamento.

Le mie scarpe erano ridotte in condizione pietosa. Le suole se n’erano andate in tocchi, e il cuoio di sopra s’e-ra rotto e screpolato così da perdere perfino la forma della calzatura. Il cappello (che m’era servito anche da berretto da notte) era così ammaccato e sformato, che nessuna vecchia casseruola senza manico, gettata su un letamaio, si sarebbe peritata di fargli concorrenza. La camicia e i calzoni, laceri e macchiati dal sudore, dalla rugiada, dall’erba e dal suolo della contea di Kent, sul quale avevo dormito, avrebbero, mentre stavo accanto al cancello, potuto spaventare gli uccelli del giardino di mia zia. La faccia, il collo e le mani, non avvezzi ad essere esposti all’aria e al sole, erano arsi e spellati. Dal capo alle piante ero bianco di calce e di polvere, come se uscissi da una fornace. In quella condizione, e nell’umiliazione che me ne veniva, aspettavo di presentarmi a far la mia impressione sulla mia formidabile zia.

Comprendendo, dopo un poco, dalla non turbata cal-339

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ma di quella finestra, che mia zia non c’era, levai gli occhi a quella di sopra, dove vidi un simpatico signore, dalla testa grigia, che chiuse un occhio in atto grottesco, scosse il capo parecchie volte, verso di me, si mise a ridere, e andò via.

Ero già sconcertato abbastanza; ma fui tanto più sconcertato da quello strano contegno, che ero sul punto di svignarmela, per andare a riflettere sul partito da prendere, quand’ecco uscir dalla casa una signora col cappellino legato da un fazzoletto, e un paio di guanti da giardino alle mani, un grembiule con una tasca e un coltellaccio. La identificai immediatamente per la signora Betsey, perché veniva innanzi ritta e impettita, come mia madre me l’aveva così spesso descritta e quale era apparsa al nostro cancello di Blunderstone.

– Va’ via – disse la signora Betsey, scotendo il capo, e tagliando col coltello un’aerea costoletta. – Va’ via! Non voglio ragazzi qui.

Col cuore in sussulto, la vidi andare in un angolo del giardino e chinarsi a raccogliere delle piante. Poi, senza un filo di coraggio, ma con l’impulso della disperazione, entrai furtivamente, e fattomele da presso, la toccai con l’indice.

– Per carità, signora – balbettai. Ella diede un balzo, e levò gli occhi. – Per carità, zia.

– Eh? esclamò mia zia, con un atto di sorpre-340

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sa del quale non ho mai visto l’eguale.

– Per carità, zia, io sono vostro nipote.

– Oh, Signore! – disse mia zia, e cadde a sedere nel viale.

– Io sono Davide Copperfield, di Blunderstone... dove voi eravate la sera che nacqui. Io sono stato molto disgraziato da quando è morta la mamma. Sono stato trascurato, e non mi s’è insegnato nulla, e mi s’è lasciato in balìa di me stesso, e sono stato messo a un lavoro disadatto per me. Son fuggito per venirvi a trovare. Sono stato derubato per strada e ho camminato sempre a piedi, e da quando mi son messo in viaggio, non so più che sia il letto. – Qui, a un tratto, ogni forza mi venne meno, e con un gesto ai miei cenci, come per chiamarli in prova delle mie sofferenze, scoppiai in un torrente di lagrime, accumula-tosi forse lentamente durante tutta la settimana.

Mia zia, senz’altra espressione che di stupore nel viso, continuava a seder fra la ghiaia, guardandomi fisso, finché non cominciai a piangere. Allora si levò in gran fretta, mi abbrancò per il collo, e mi trascinò nel salotto.

Suo primo atto fu di aprire una specie di credenza mo-numentale, di cavarne parecchie bottiglie, e di versarmi un sorso del contenuto di ciascuna in bocca. Credo che le avesse prese a caso, perché è certo che assaporai ac-341

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qua d’anice, salsa d’acciuga e condimento d’insalata.

Quando m’ebbe somministrato quei rinfreschi, vedendomi ancora in preda al pianto e incapace di frenare i singhiozzi, mi mise sul canapè, con uno scialle sotto la testa e il fazzoletto, che già le legava il cappellino, sotto i piedi, per paura che insudiciassi la stoffa del mobile, e poi, sedendosi dietro la ventola verde già menzionata, in modo che non potevo vederla in faccia, esclamava di tanto in tanto: «Misericordia!», e le sue esclamazioni parevan salve d’un cannone che invocasse soccorso.

Dopo un poco suonò il campanello.

– Giannina – disse mia zia all’ingresso della domestica;

– va’ su, da’ i miei saluti al signor Dick, e digli che desidero di parlargli.

Giannina parve alquanto sorpresa, nel vedermi allungato sul canapè, e immobile (non ardivo muovermi, per paura di dispiacere a mia zia), ma uscì in fretta per eseguir l’ordine. Mia zia, con le mani dietro la schiena, si mise a camminare su e giù per la stanza, finché non entrò ridendo il signore che m’aveva fatto dei versacci dalla finestra di sopra.

Are sens