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Il baule l’avevo ancora nella vecchia camera, sull’altra riva, e avevo scritto per esso un indirizzo su uno dei car-toncini che la nostra ditta inchiodava sulle casse: «Signorino Copperfield, da lasciar fermo fin quando sarà domandato, Ufficio della Diligenza, Dover» . L’avevo pronto in tasca per metterlo sul baule, dopo averlo ritirato dal luogo dove stava; e mentre mi dirigevo a quella volta, guardavo intorno cercando qualcuno che potesse aiutarmi a portarlo all’ufficio di spedizione.

V’era, fermo accanto all’ Obelisco, nella Blackfriars Road, un giovanottone dalle gambe lunghe con un carrettino vuoto al quale era attaccato un asino. Passando-gli vicino, lo guardai con qualche insistenza; ed egli chiamandomi: «Mozzicone di sigaretta» s’augurò che

«potessi riconoscerlo un’altra volta» – alludendo senza 317

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dubbio al mio sguardo insistente. Mi fermai per assicurarlo che non lo avevo fatto per male, ma soltanto nel dubbio che egli volesse o no incaricarsi d’un servizio.

– Che servizio? – disse il giovanottone dalle gambe lunghe.

– Portare un baule – risposi.

– Che baule? – disse il giovanottone dalle gambe lunghe.

Gli dissi il mio, che era in quella via là, e che gli avrei dato dodici soldi se me l’avesse portato all’ufficio della diligenza di Dover.

– Vada per dodici soldi! – disse il giovanottone dalle gambe lunghe, e immediatamente saltò sul carretto, che era nient’altro che un gran vassoio di legno messo su delle ruote, e partì a una tale velocità, che io dovevo fare dei violenti sforzi per tenere il passo con l’asino.

C’era certa baldanza in quel giovane e specialmente nel modo di masticar un filo di paglia mentre parlava, che non mi piaceva molto; ma siccome il contratto era fatto, lo condussi su alla camera che lasciavo, e, portato il baule giù, lo mettemmo sul carro. Ora, non volendo mettere lì il cartoncino con l’indirizzo, per tema che la famiglia del padrone di casa s’accorgesse della mia intenzione e mi trattenesse, pregai il giovane di fermarsi quando fosse arrivato al muro di cinta della prigione di King’s Bench. Non avevo ancora finito di dire quelle 318

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parole, che si diede a correre precipitosamente come se lui, il baule, il carretto e l’asino fossero tutti egualmente invasi da un accesso di follia; e io non avevo più fiato per correre e gridargli dietro, quando lo raggiunsi nel punto stabilito.

Ansante ed agitato com’ero, cavando di tasca il cartoncino dell’indirizzo, mi venne in mano anche la mezza ghinea. Me la misi in bocca per maggior sicurezza, e benché le mani mi tremassero molto, ero già riuscito, con mia grande soddisfazione, a legare il cartoncino dell’indirizzo, quand’ecco mi sentii arrivare sul mento un pugno violento del giovanottone dalle gambe lunghe, e vidi la mezza ghinea che tenevo fra i denti volargli in mano.

– Che! – disse il giovane, afferrandomi per il bavero della giacca, con un terribile ghigno. – Tu vuoi scappare, tu! Vieni alla polizia, piccolo brigante, vieni alla polizia!

– Ridammi il mio denaro, per carità! – dissi io, con una gran paura – e lasciami andare.

– Vieni alla polizia – diceva il giovane. – Dimostrerai alla polizia che è tuo.

– Dammi il mio baule e il mio denaro, dammeli! – pregai, scoppiando in lagrime.

Il giovane diceva sempre: «Vieni alla polizia», e mi stava trascinando violentemente contro l’asino, come se 319

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vi fosse qualche affinità tra quell’animale e un funzionario, quando, mutando improvvisamente di parere, saltò sul carro, si sedette sul baule, ed annunciandomi che andava difilato alla polizia, partì più velocemente e più strepitosamente che mai.

Gli corsi dietro più velocemente che potevo, ma non avevo fiato per richiamarlo, e, avendolo, non avrei osato. Fui ad un pelo dall’esser travolto, venti volte almeno, in mezzo miglio. Ora lo perdevo di vista, ora lo rivede-vo, ora lo perdevo ancora, ora m’arrivava un colpo di staffile, ora un urto, ora ero giù nel fango, ora mi levavo di nuovo, ora urtavo nel petto di qualche passante, ora correvo con la testa contro un pilastro. Finalmente, confuso dalla foga e dalla paura, e temendo che mezza Londra potesse mettermisi alle calcagna per arrestarmi, lasciai il giovane andare dove volesse col mio baule e il mio denaro; e, ansando e piangendo, ma non fermandomi mai, presi la strada di Greenwich, che avevo compreso era su quella di Dover; portando verso il ritiro di mia zia, la signora Betsey, delle ricchezze di questo mondo non più di quante ne portassi al mio arrivo, la notte che le suscitò tanta stizza e dispetto.

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XIII.

LA VITA PER CONTO MIO

Credo mi balenasse la folle idea, quando rinunziai al-l’inseguimento del giovane carrettiere e presi la via di Greenwich, di correre sempre fino a Dover. Ma presto moderai il passo, e mi fermai sulla strada di Kent su una spianata con un po’ d’acqua innanzi e nel mezzo una brutta e grossa statua, che soffiava in una conchiglia asciutta. Mi sedei sullo scalino d’una porta, assolutamente spossato dallo sforzo compiuto, e con appena il fiato da piangere la perdita del baule e della mezza ghinea. Era già buio; e sentii, stando a sedere, gli orologi sonare le dieci.

Fortunatamente s’era d’estate e con un tempo bellissimo. Dopo aver ripigliato fiato, ed essermi liberato da una sensazione di soffocamento in gola, m’alzai e mi rimisi in cammino. Nonostante la mia angoscia, non pensai neppure lontanamente a tornare indietro: non ci avrei pensato neppure se sulla strada di Kent avesse cominciato a nevicare come su una montagna della Svizzera.

Ma il pensiero d’avere soltanto sei soldi in tasca (veramente era una strana combinazione possedere ancora sei soldi una sera di sabato!) non cessava dal turbarmi 321

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profondamente. Immaginai che fra un paio di giorni un paragrafetto di giornale avrebbe annunziato che ero stato rinvenuto morto sotto qualche siepe; e continuavo a trascinarmi penosamente innanzi, come le gambe mi permettevano, allorché m’avvenne di passare davanti a una botteguccia, sulla quale era scritto che vi si compravano abiti usati da signori e signore, e che si pagavano profumatamente cenci, ossa e cianfrusaglie inservibili d’ogni specie. Il padrone della bottega era seduto sulla porta in maniche di camicia, e fumava: e siccome cion-dolavano dal soffitto molte giacche e molte paia di calzoni, illuminate da due fioche candele, la sua figura mi suggerì l’idea d’un uomo vendicativo, che avesse impiccato tutti i suoi nemici, e stesse a contemplarseli soddisfatto.

L’esperienza acquistata nei miei rapporti col signore e la signora Micawber mi fece pensare che avevo forse ancora il mezzo di tener lontana la fame per qualche poco. Entrai in un vicoletto vicino, mi tolsi la sottoveste, l’arrotolai con garbo, me la misi sotto il braccio, e mi presentai sulla porta della bottega.

– Per piacere – dissi – vorrei vendere questa sottoveste a un prezzo conveniente.

Dolloby – non so se fosse lui; ad ogni modo sulla porta della bottega c’era scritto Dolloby – prese la sottoveste, depose la pipa contro uno stipite della porta, entrò nella bottega, precedendomi, smoccolò le due candele con le 322

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dita, allargò la sottoveste sul banco e la esaminò, la levò distesa contro luce, la riesaminò, e finalmente disse:

– E così, quanto chiedete per questo cencio?

– Oh, voi lo sapete meglio di me! – risposi modestamente.

– Io non posso essere compratore e venditore nello stesso tempo – disse Dolloby. – Dite voi il prezzo di questo cencio.

– Se dicessi due lire? – accennai, dopo un istante di esitazione.

Dolloby arrotolò di nuovo la sottoveste e me la restituì.

– Deruberei la mia famiglia – egli disse – se ve ne dessi più di una.

Presentata in questi termini, la cosa non era lusinghiera: si attribuiva a me, perfettamente estraneo, il reo proposito di indurre Dolloby a derubare la sua famiglia in mio favore. Nella urgente necessità in cui mi trovavo, però, dissi che, se egli avesse voluto, avrei accettato la lira.

Dolloby, non senza aggiungervi qualche brontolìo, mi contò la lira. Gli augurai la buona sera, e me ne uscii più ricco di una lira, e più povero d’una sottoveste: circostanza poco grave, dopo che mi fui abbottonata la giacca.

Are sens