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suo letto arrotolato in un angolo; e tutti i piatti e i tondi e i vasi che possedeva su una mensoletta, e indovinai (Dio sa come!) che, benché le due ragazze con le chiome scarmigliate in modo repugnante fossero figlie del capitano Hopkins, la signora sudicia non era maritata al capitano Hopkins. La mia timida sosta su quella soglia non occupò più d’un paio di minuti al massimo; ma ridiscesi così sicuro delle cognizioni che avevo appreso, come d’avere in mano il coltello e la forchetta.

Dopo tutto, nel desinare vi fu qualche cosa di piacevolmente zingaresco. Nel pomeriggio riportai subito la forchetta e il coltello al capitano Hopkins, e tornai a casa a confortare, col racconto della mia visita, la signora Micawber, che svenne, quando mi vide entrare, e fece uno zabaione dopo per consolar me e se stessa durante la narrazione.

Non so che via si seguisse per vendere i mobili e tirare innanzi la famiglia, o chi li vendesse; certo, non fui io.

Venduti, però, furono, e portati via in un furgone, meno il letto, poche sedie, e la tavola di cucina. Con questi arredi ci accampammo, per così dire, in due camere della casa nuda di Windsor Terrace; la signora Micawber, i figli, l’orfana e io; e in quelle stavamo la notte e il giorno.

Non ho un’idea esatta del termine, ma mi sembra per molto tempo. Finalmente la signora Micawber si risolse di trasferirsi nella prigione, dove il signor Micawber aveva potuto avere una camera per sé solo. Così portai 298

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la chiave dell’appartamento al padrone di casa, che fu felice di rivederla; e i letti furono mandati nella prigione di King’s Bench, tranne il mio, per il quale fu presa a pigione una stanzina fuori le mura, ma in vicinanza di quell’istituto, con gran mia soddisfazione, giacché fra i Micawber e me c’era già troppa consuetudine e troppi vincoli d’infelicità per poterci separare senza rimpianto.

Per l’orfana fu parimenti provveduto con poca spesa nello stesso vicinato. La mia cameretta era una specie di soffitta col tetto in pendio, donde si godeva la vista d’un gran cantiere di legname. Quando ne presi possesso, pensando che le difficoltà del signor Micawber erano giunte finalmente alla crisi, mi parve assolutamente un piccolo Eden.

Lavoravo nel magazzino di Murdstone e Grinby sempre allo stesso modo, con gli stessi compagni e con lo stesso senso d’immeritata abiezione provato fin dall’inizio. Ma non mai, fortunatamente per me certo, feci una sola conoscenza, o parlai a nessuno fra i molti ragazzi che incontravo nell’andare e venire dal magazzino, e nell’errare per le vie vicine, all’ora del desinare. Menavo la stessa vita segretamente infelice; ma sempre allo stesso modo solitaria e indipendente.

I soli mutamenti che ricordo furono, in primo luogo, che ero sempre più male in arnese; e, secondo, che mi sentivo oramai libero dal carico dei pensieri del signore e della signora Micawber; perché alcuni amici e parenti 299

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avevano promesso di aiutarli in quel frangente, ed essi se la passavano molto meglio in prigione che fuori, da parecchio tempo. Usai poi di far colazione con loro, in virtù d’un accordo i cui particolari mi sfuggono. Non ricordo più neppure a che ora s’aprissero i cancelli la mattina per lasciarmi entrare; ma so che spesso ero in piedi alle sei e che nell’intervallo attendevo di preferenza sul vecchio London Bridge, dove mi sedevo in una delle nicchie di pietra a osservare la gente che passava o a guardare, oltre il parapetto, il sole che splendeva sull’acqua, e illuminava la fiamma d’oro sulla cima del Monumento. L’orfana spesso mi raggiungeva colà, per sentir narrare da me storie sbalorditive delle banchine e della Torre; delle quali storie non so dir altro che credo che le credessi anch’io. Nella serata ritornavo alla prigione, e passeggiavo su e giù sulla spianata col signor Micawber; e giocavo alle carte con la signora Micawber, e sentivo da lei narrare le memorie del papà e della mamma.

Non sono in grado di dire se il signor Murdstone sapesse dove ero. Nel magazzino Murdstone e Grinby io non lo dissi mai.

Gli affari del signor Micawber, benché avessero superato la crisi, erano intricatissimi a cagione d’un certo

«Patto», del quale sentivo parlare, e che immagino, ora, fosse un accordo anteriore coi suoi creditori, benché allora non comprendessi gran che di che si trattasse, e lo confondessi con certe pergamene diaboliche delle quali si diceva una volta si trafficasse molto in Germania. Fi-300

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nalmente parve che il documento si fosse perduto, non so come; ad ogni modo cessò di esser l’ostacolo insor-montabile che aveva fino allora rappresentato; e la signora Micawber mi annunziò che «la sua famiglia»

aveva deciso che il signor Micawber dovesse domandare la scarcerazione in virtù della legge sui debitori insol-vibili; e che egli sarebbe stato messo in libertà, ella sperava, tra sei settimane circa.

– E poi – disse il signor Micawber, che era presente

– non ho più alcun dubbio che comincerò, grazie al Cielo, a indovinare le mire del prossimo, e a vivere in modo assolutamente diverso, se... se insomma, si volte-rà la carta.

Per mettersi in grado di profittar dell’avvenire, ricordo che il signor Micawber, in quei giorni, componeva una petizione alla Camera dei Comuni, chiedendo un emendamento alla legge dell’imprigionamento per debiti. Trascrivo quest’episodio perché è un esempio della mia maniera d’adattare i miei vecchi ricordi alla mia novella vita, e di comporre per semplice mio diletto storie d’uomini e di donne; e perché si vegga come i principali tratti del carattere che io inconsapevolmente svi-lupperò, credo, nello scrivere la mia vita, s’andassero in me gradatamente formando.

In prigione v’era un circolo nel quale il signor Micawber, come gentiluomo, era una grande autorità. Il signor Micawber aveva partecipato questa sua idea del-301

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la petizione, e il circolo l’aveva approvata con entusiasmo. Quindi il signor Micawber (che era un cuor d’oro, e d’una attività straordinaria in tutto ciò che non riguardava direttamente la sua professione, e non mai più beato di quando poteva occuparsi di cose che non gli potevano dare alcun profitto) si mise a lavorare alla petizione, l’abbozzò, la ricopiò con una bellissima scrittura su un immenso foglio di carta, la distese sul tavolino, e fissò un’ora per tutto il circolo e per tutti i prigionieri, che volessero andare in camera sua a firmarla.

Quando seppi della cerimonia imminente, ero in tanta ansia di vederli arrivar tutti, l’uno dopo l’altro, benché li conoscessi la maggior parte, e io fossi da loro conosciuto, che chiesi un congedo d’un’ora da Murdstone e Grinby, e andai a mettermi in osservazione in un angolo. Tanti dei principali membri del circolo, che potevano entrar nella stanza senza riempirla, circondavano il signor Micawber di fronte alla petizione, mentre il mio vecchio amico capitano Hopkins (che s’era levato per fare onore a quella solennità) le stava da presso, per leggerla a quanti non ne conoscevano il contenuto. La porta fu spalancata, e tutta la popolazione cominciò a entrare in una lunga fila; parecchi aspettavano di fuori, mentre uno entrava, apponeva la firma e usciva. A ciascuno, l’uno dopo l’altro, il capitano Hopkins diceva: «L’avete letta?» – «No». – «Vi spiacerebbe di sentirla leggere?». Se si mostrava la minima inclinazione a sentirla, il capitano Hopkins la leggeva con 302

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voce alta e sonora, parola per parola. Il capitano l’avrebbe letta ventimila volte, se ventimila persone, a una a una, avessero voluto sentirla. Ricordo l’enfasi di soddisfazione ch’egli dava a simili frasi come «I rappre-sentanti del popolo raccolti in Parlamento», «I petenti perciò si presentano umilmente alla vostra onorevole Camera», «Gli sfortunati sudditi della Vostra Graziosa Maestà»; come se le parole fossero qualche cosa di sensibile in bocca e deliziose al palato. Il signor Micawber, intanto, ascoltava con un po’ della vanità d’un autore, e contemplava (senza severità) le inferriate del muro di fronte.

Mentre io andavo su e giù tutti i giorni fra Southwark e Blackfriars, ed erravo all’ora del desinare nelle viuzze anguste ed oscure, le cui pietre erano logorate dai miei passi infantili, mi domandavo quanti di quei prigionieri mancassero in quella folla che soleva di nuovo sfilarmi nel pensiero all’eco della voce del capitano Hopkins.

Quando il mio spirito ritorna al segreto martirio della mia infanzia, mi meraviglio di vedere i romanzi, che in-ventavo allora su persone di quella risma, avvolgere come una nebbia fantastica dei fatti precisi e reali.

Quando ripasso per quelle vie, non mi stupisco se, com-piangendomi, mi riveggo andare innanzi, romanzesco e innocente ragazzo, che compone il suo mondo immagi-nario con simili prove dolorose e lembi di miseria umana.

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XII.

UNA GRAN RISOLUZIONE

Nel termine stabilito, fu esaminata la domanda del signor Micawber, e, in virtù della legge sui debitori insol-vibili, ordinata, con mia letizia, la sua scarcerazione. I creditori non si mostrarono implacabili; e la signora Micawber m’informò che perfino il bollente calzolaio aveva dichiarato in piena corte che non gli portava rancore; ma che quando poteva riscuotere una somma, lui voleva esser pagato: «Mi pare, egli aveva detto, che sia umano».

Dopo la sentenza, il signor Micawber ritornò alla prigione di King’s Bench, giacché si dovevano regolare alcune spese e compiere alcune formalità, prima di poter essere effettivamente liberato. Il circolo lo accolse con entusiasmo; e tenne in suo onore quella sera una seduta musicale; mentre la signora Micawber e io, circondati dalla prole addormentata, celebravamo la circostanza con un fritto d’agnello.

– In quest’occasione, Copperfield – disse la signora Micawber – ti darò un altro po’ di ponce – perché già se n’era bevuto – in memoria di papà e mamma.

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– Sono morti, signora? – chiesi, dopo aver bevuto alla loro memoria.

– La mamma – disse la signora Micawber – lasciò questa vita prima che cominciassero le difficoltà di mio marito, o almeno prima che diventassero insormontabili. Il papà visse tanto da esser garante parecchie volte di mio marito, e poi morì, rimpianto da numerosi amici.

La signora Micawber scosse il capo, e lasciò cadere una pia lacrima sul gemello che in quel momento aveva in braccio.

Siccome non speravo di cogliere un’occasione più propizia per fare una domanda di mio particolare interesse, dissi alla signora Micawber:

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