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Arrivati alla sua casa (la quale al pari di lui era frusta; ma, come lui anche, sfoggiava la maggior pompa possibile), egli mi presentò alla signora Micawber, una donna pallida e appassita, non più giovane, che sedeva nel salotto (il primo piano era assolutamente sfornito di mobili, e aveva le tendine abbassate per gli occhi dei vicini) con un bambino al petto. Il bambino era uno di due gemelli; e posso dire qui che non una volta, nel tempo della mia dimora colà, mi accadde di vedere entrambi i gemelli distaccati contemporaneamente dalla signora Micawber. Uno era sempre occupato a sorbire un rinfresco.

V’erano altri due bambini; il signorino Micawber, di circa quattro anni, e la signorina Micawber di circa tre.

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Questi, e una servetta di color bruno, che aveva il vizio di sbuffar col naso, come i cavalli, e m’informò, dopo mezz’ora, che era orfana ed era uscita dal vicino ospizio di San Luca, completavano la famiglia. La mia camera era di sopra, al di dietro, piccola, molto poveramente arredata e parata di certa carta che rappresentava alla mia immaginazione infantile una gran quantità di ciambelle azzurre.

– Non pensavo mai – disse la signora Micawber, dopo esser salita su, gemello e tutto, a mostrarmi la camera, e sedendosi per riprender fiato – non pensavo mai prima di maritarmi, quando ero con papà e mamma, che un giorno avrei dovuto appigionare delle camere in casa mia. Ma mio marito è adesso in condizioni difficili, e ogni considerazione del nostro sentimento intimo si deve far tacere.

Io dissi:

– Sì, signora.

– Proprio ora le difficoltà in cui si dibatte mio marito sono enormi, e non so se gli sarà possibile superarle.

Quando ero a casa mia con papà e mamma, avrei difficilmente capito che significasse difficoltà, nel senso in cui ora l’adopero; ma «experientia» ci insegna... come usava dire papà.

Non ricordo bene se mi dicesse che il signor Micawber era ex-ufficiale o impiegato della Marina, o se me lo im-284

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maginassi io. So soltanto che ora io credo, senza saper perché, che egli una volta fosse in Marina. Allora era piazzista per varie ditte; ma temo che si desse poco o nulla da fare.

– Se i creditori di mio marito non gli daranno del tempo

– disse la signora Micawber – dovranno subirne le conseguenze; e più presto sarà, meglio sarà. Non si può cavar sangue da una pietra; né si può aver nessun acconto da mio marito, per non dir nulla delle spese di giustizia che ci vorranno.

Veramente non so se la mia indipendenza precoce il-ludesse la signora Micawber sul conto della mia età, o se fosse così piena dell’argomento che ne avrebbe parlato persino ai gemelli, se non avesse trovato altri con cui discorrerne; ma cominciò con questa antifona e con essa seguitò tutto il tempo che stetti con lei.

Povera signora Micawber! Mi disse che aveva tentato anche lei di darsi da fare; e certamente, aveva tentato. Il centro dell’uscio di strada era completamente coperto da una lastra d’ottone, sulla quale era inciso: «Istituto pensione per signorine della signora Micawber»: ma non seppi che si fosse mai presentata a quella scuola qualche signorina, o che si presentasse mai, o che si proponesse mai di presentarsi; o che nell’Istituto si fosse fatta la minima preparazione per riceverla. I soli visitatori, dei quali seppi o udii, erano creditori. Arrivavano a tutte le ore, e alcuni erano assolutamente feroci. Certo tipo dalla 285

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faccia sporca, credo fosse un calzolaio, solleva piantarsi all’ingresso la mattina prima delle sette, e gridare su al signor Micawber: «Tu non sei ancora uscito, sai! Pagami, su! Non ti nascondere, sai! È una vigliaccheria! Io non sarei vigliacco, se fossi in te! Vuoi o non vuoi pagarmi? Senti, sì o no? Pagami! Su!». Non ricevendo alcuna risposta a questi insulti, egli arrivava, in un trasporto d’ira, fino alle parole «truffatori» e «ladri»; ma rimanendo anche quelle senza effetto, a volte si lasciava andare all’estremità di traversare la strada e di andare a urlare sotto le finestre del secondo piano, dove sapeva ch’era la camera da letto del signor Micawber. In quei casi, il signor Micawber si mostrava invaso da un affanno, e una disperazione tale da accennare (come vidi una volta, accorrendo a un grido della moglie) di portarsi il rasoio alla gola; ma mezz’ora dopo era occupato a pulir-si le scarpe con somma accuratezza, per quindi uscire a passeggio canticchiando un’arietta con la maggiore dignità possibile. La signora Micawber era precisamente della stessa elasticità. La vidi una volta alle tre del pomeriggio cadere in deliquio innanzi all’esattore delle imposte, e alle quattro mangiare costolette d’agnello pa-nate e bere la birra (il tutto pagato con un pegno di due cucchiaini da tè). Una volta, tornando a casa più presto del solito, alle sei, dopo che era stato eseguito un sequestro in casa, la trovai distesa sul pavimento (naturalmente con un gemello) svenuta, accanto al caminetto, con la chioma scarmigliata; ma non la vidi mai più allegra di 286

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quella sera su una costoletta di vitello, innanzi al fuoco della cucina, nell’atto di parlarmi del papà e della mamma, e degli ospiti che essi solevano invitare.

In quella casa, e con quella famiglia, io passavo le mie ore di riposo. Provvedevo da me con un pane da due soldi e due soldi di latte alla mia colazione; per la cena, quando tornavo a casa la sera, tenevo un altro panino e un pezzetto di cacio, in uno scaffale speciale d’una credenza speciale. Tutto questo, so bene, faceva un bel buco nei miei sei o sette scellini; e stavo nel magazzino tutto il giorno e dovevo mantenermi con quel denaro tutta la settimana. Dal lunedì fino alla sera del sabato, non avevo un avvertimento, un conforto, un aiuto, un ausilio di nessuna specie da nessuno che io ricordi, come è vero che confido d’avere il perdono del Cielo!

Ero così piccino e inesperto, e incapace – come poteva essere altrimenti? – d’assumermi la cura di me stesso, che, non di rado, la mattina, recandomi da Murdstone e Grinby, non potevo resistere all’attrattiva delle torte e dei dolci messi fuori a metà prezzo nelle mostre dei pa-sticcieri, e spendevo là entro il denaro messo in serbo per il desinare. Allora me ne stavo senza desinare, o compravo un panino o una fetta di budino. Ricordo due spacci di budino e andavo dall’uno o dall’altro, secondo le mie finanze. Uno era in un cortile vicino alla chiesa di San Martino, dietro la chiesa: – ora di esso non c’è più traccia. Ivi il budino era fatto di ottima uva passa, ed era 287

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veramente un budino speciale, ma si vendeva caro, e per quattro soldi non se ne aveva più di due soldi di budino ordinario. Uno spaccio buono per quest’ultimo era nello Strand – in un punto che, di poi, è stato rifabbricato. Era un budino pesante e molle, con grossi acini d’uva ap-piattiti, disseminati a gran distanza l’uno dall’altro. Era caldo che scottava all’ora del mio desinare, del quale molte volte formò l’unico piatto.

Quando desinavo regolarmente e bene, compravo della cervellata e un pane da due soldi, o un piatto di otto soldi di carne da un rosticciere; o un pezzo di pane e cacio e un bicchiere di birra da una povera trattoria di fronte al nostro magazzino, chiamata il Leone, o il Leone e qualche altra cosa che ho dimenticato. Una volta, ricordo di essere entrato, col mio pane sotto il braccio (me l’ero portato di casa la mattina), avvolto in un foglio di carta a mo’ di un libro, in un ristorante di Drury Lane, famoso per il bove alla moda, e d’aver ordinato mezza porzione di quella leccornia per mangiarla col mio pane.

Che pensasse il cameriere di quella strana, piccola apparizione entrata lì così soletta, non so; ma lo veggo ancora in questo istante fissarmi mentre mangiavo e convo-car l’altro cameriere a godersi lo spettacolo. Lasciai un soldo per lui, e vorrei che non l’avesse accettato.

Mi sembra che avessimo mezz’ora di tempo per il tè.

Quando avevo abbastanza denaro, solevo comprare mezza pinta di caffè bell’e fatto e una fetta di pane im-288

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burrato. Quando non ne avevo, andavo a guardare una bottega di cacciagione in Fleet Street; o facevo una passeggiata, talvolta fino al mercato di Covent Garden, per contemplare estasiato gli ananassi. Mi piaceva di gironzare intorno all’Adelphi, perché era un luogo misterioso con tutti quegli archi di fronte a un caffeuccio sul fiume, che aveva davanti uno spiazzo dove ballavano alcuni scaricatori di carbone; e per guardarli mi sedetti su una panca. Chi sa che pensarono di me!

Ero così fanciullo, e così minuscolo che quando entravo nella sala di vendita di qualche caffè, per me nuovo, a bere un bicchiere di birra per mandar giù ciò che avevo mangiato a desinare, si esitava a darmelo. Una sera d’a-fa opprimente, entrai, ricordo nella sala di vendita di un caffè, e dissi al padrone:

– Quanto costa un bicchiere della migliore... ma veramente della migliore birra che avete? – Perché si trattava d’una speciale ricorrenza.

Non so quale. Forse era il mio genetliaco.

– Cinque soldi – disse il padrone – è il prezzo della birra migliore.

– Allora – dissi io, porgendo il denaro – datemene un bicchiere, per piacere, ma con molta spuma, vi raccomando.

In risposta, il padrone mi squadrò, di sul banco, dalla testa ai piedi, e sulla faccia gli apparve uno strano sorriso; 289

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e invece d’andare a spillare la birra, guardò oltre il tramezzo, e disse qualche cosa alla moglie, la quale si levò, col suo lavoro in mano, e si mise anche lei a contemplarmi. Veggo ancora la scena. Il padrone in maniche di camicia, che s’appoggia all’apertura del banco; la moglie che guarda di sulla mezza porticina; e io, un po’

confuso, che guardo entrambi dall’altro lato del tramezzo. Essi mi fecero tante domande: come mi chiamassi, quanti anni avessi, dove abitassi, come fossi occupato, e come fossi capitato lì dentro. Alle quali domande, per non comprometter nessuno, diedi, inventandole, credo, appropriate risposte. Mi servirono la birra, ma non credo fosse la migliore; e la moglie del padrone, aprendo la porticina, e chinandosi su di me, mi restituì il denaro, e mi diede un bacio che era mezzo d’ammirazione e mezzo di compassione, e caldo, credo, di molta tenerezza femminile.

So di non esagerare, inconsapevolmente e involontariamente, la insufficienza dei miei mezzi o le difficoltà della mia vita. So che se allora mi veniva dato dal signor Quinion uno scellino, io lo spendevo in un desinare o in un tè. So che lavoravo da mattina a sera, malvestito, tra gente volgare. So che erravo per le vie, male e insufficientemente nutrito. So che, senza la misericordia divina, sarei potuto diventare, in tale abbandono, un piccolo vagabondo o un ladruncolo.

Pure da Murdstone e Grinby cercavo di mantenermi in 290

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Are sens