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David Copperfield

un certo grado di dignità. Il signor Quinion faceva ciò che poteva fare una persona, come lui, indifferente e molto occupata, verso quel ragazzo in balia di sé stesso, per trattarmi come uno di diversa condizione dagli altri; ma, d’altra parte, io non dicevo mai a nessuno lì dentro come mi ci trovassi, e non accennavo minimamente d’esser dolente di trovarmici. Che in segreto soffrissi, e in maniera atroce, nessuno sapeva. Quanto io soffrissi, l’ho già detto, non m’è possibile descriverlo. Ma tacevo e lavoravo. Avevo compreso fin dal principio, che se non fossi riuscito a far il mio lavoro come gli altri, non sarei sfuggito ai motteggi e al dispregio degli altri. Presto divenni rapido e abile almeno quanto il più rapido e abile di tutti gli altri ragazzi. Benché in perfetta familiarità con loro, la mia condotta e i miei modi erano tali da lasciare una certa distanza fra noi. Essi e gli operai lì dentro parlavano di me come del «piccolo signorino» o del «ragazzo del Suffolk». Certo Gregory, il capo de-gl’imballatori, e un certo Tipp, che faceva il vetturale e portava una giacca rossa, solevano a volte chiamarmi

«Davide»; ma per lo più, ricordo, nei momenti confidenziali, quando m’ero sforzato di divertirli, durante il lavoro, con qualche strascico delle mie vecchie letture, le quali stavano quasi uscendomi di mente. Fecola di Patate una volta si levò indispettito, ribellandosi contro quella certa considerazione che mi s’accordava; ma Mick Walker lo mise subito a posto.

Credevo assolutamente disperata la mia riscossa da 291

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quella specie di esistenza, e rinunciai a pensarci. Neppure per un’ora, certo, mi ci sentii riconciliato, e continuavo a soffrirne, crudelissimamente; ma la sopportavo; e a Peggotty, un po’ per amor suo, un po’ per vergogna, in nessuna lettera (benché ce ne scrivessimo molte) rivelai la verità.

Le difficoltà del signor Micawber aggiungevano qualche cosa alle mie angosce individuali. Nella mia condizione di abbandono, m’ ero alleato strettamente alla sua famiglia, e solevo vagare rimuginando i calcoli fantastici e laboriosi della signora Micawber per uscir d’imbarazzo, e onusto del peso dei debiti del signor Micawber. La sera del sabato, giorno di gran festa per me –

un po’ perché era una gran cosa andare a casa con sei o sette scellini in tasca, contemplando le vetrine dei negozi e pensando a che cosa si potesse comprare con una somma come quella, e un po’ perché si usciva più presto dal magazzino – la signora Micawber soleva farmi le più strazianti confidenze, senza pregiudizio della mattina della domenica, quando mi versavo la porzione di tè o di caffè, comprata la sera, in un vasetto per la barba, e facevo colazione tardi. Non era insolito per il signor Micawber mettersi a singhiozzare violentemente al principio di una di quelle conversazioni della sera del sabato, e poi cantare una canzonetta allegra prima d’andare a letto. Una sera lo vidi arrivare a cena tra un fiotto di lagrime, dichiarando che non gli rimaneva altro che la prigione; e poi andare a letto, calcolando la spesa occorren-292

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te per aprire un balcone in un muro «nel caso che la carta si voltasse», come era solito esprimersi.

Nonostante la disparità degli anni, una strana eguaglianza amichevole, originata forse dalle nostre condizioni rispettive, andò formandosi fra quella gente e me. Ma non mi permisi mai d’accettar di mangiare con loro e a loro spese (informato com’ero, delle loro cattive relazioni col macellaio e col fornaio, e che spesso non ne avevano d’avanzo per sé), finché la signora Micawber non mi accordò tutta la sua confidenza. Ecco che mi disse una sera.

– Copperfield – disse la signora Micawber – io non ti tratto come un estraneo, e perciò non esito a dirti che le difficoltà di mio marito sono giunte alla crisi.

Quell’annunzio mi addolorò profondamente, e guardai con la massima simpatia gli occhi arrossati della signora Micawber.

– Ecco un pezzetto di formaggio olandese... che non si confà ai bisogni d’una giovane famiglia – disse la signora Micawber – e nella credenza non c’è più un boccone d’altro. Ero solita di parlare della credenza quando ero a casa mia con papà e mamma, e uso le parole senza pensarci. Ciò che voglio dire è che in casa non c’è nulla da mangiare.

– Giusto Cielo! – dissi con molta commozione.

Avevo due o tre scellini del denaro della settimana in ta-293

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sca – ne arguisco che questa conversazione si dové svol-gere una sera di mercoledì – e li cavai sollecito, e con sentita commozione pregai la signora Micawber di ac-cettarli in prestito. Ma la signora, baciandomi, e facen-domeli rimettere in tasca, rispose che non c’era da pensarci neanche.

– No, mio caro Copperfield – disse – neppur per ombra.

Ma tu hai una discrezione superiore all’età tua, e puoi farmi un altro favore,se vuoi, che accetterò con gratitudine.

Pregai la signora Micawber di dirlo.

– Ho impegnato io stessa l’argenteria – disse la signora Micawber. – Sei cucchiaini da tè, due saliere, un paio di mollette. Ma per i gemelli m’è difficilissimo muovermi; e poi, coi ricordi di papà e mamma, queste escursioni mi sono penosissime. Ho ancora dei piccoli oggetti di cui posso disporre. I sentimenti di mio marito non gli permettono di disporne, e Clickett – era la ragazza uscita dall’ospizio – volgare com’è, si prenderebbe delle libertà, se le dessimo un incarico di tanta fiducia. Copperfield, ti potrei chiedere...

Avevo compreso il desiderio della signora Micawber, e la pregai di disporre di me a suo piacere. Quella stessa sera cominciai a portare gli oggetti meno ingom-branti; e uscii per simili escursioni quasi ogni mattina, prima di recarmi da Murdstone e Grinby.

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Il signor Micawber aveva pochi libri in uno scaffale, che chiamava la biblioteca; e prima se n’andarono via i libri.

Li portai, a uno a uno, a una banchetta della City Road –

una parte di questa strada, vicino a casa, era tutta un’esposizione di banchette di libri e di botteghe di uccelli –

e li vendevo per qualunque prezzo. Il padrone di quella banchetta, che abitava in una casuccia lì dentro, era bril-lo tutte le sere, e veniva fragorosamente sgridato dalla moglie tutte le mattine. Più d’una volta, recandomi in casa sua presto, mi dava udienza in un canapè a letto, con un occhio nero e una ferita in fronte, testimoni degli eccessi della vigilia (temo che egli fosse di natura liti-giosa sotto i fumi del vino) sforzandosi, con la mano che gli tremava, di trovare gli scellini occorrenti in questa o quella tasca degli abiti sparsi sul pavimento, mentre la moglie, con un bambino in braccio e le calcagna fuor delle scarpe, non cessava un momento di strillare, rimproverandogli la sua vergogna. A volte aveva perduto il denaro, e mi pregava di ritornare più tardi; ma la moglie ne aveva sempre un po’ – glielo aveva tolto, forse, mentre era ubriaco – e sulle scale, in segreto, discendendo insieme con me, concludeva il contratto.

Fui presto noto anche dove si accettavano in pegno gli oggetti. Il signore che pareva il capoufficio, e stava dietro il banco, mi prese in gran considerazione, e spesso, ricordo, mi chiedeva di declinargli all’orecchio un nome latino o un aggettivo, o coniugare un verbo, mentre s’occupava del mio contratto. Dopo tutte queste gite, la 295

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signora Micawber faceva una piccola festa, che in generale era una cena; e quei pasti, non li ho dimenticati, erano d’una squisitezza particolare.

Finalmente le difficoltà del signor Micawber giunsero alla crisi, e una mattina egli fu arrestato e condotto nella prigione di King’s Bench nel Borough. Egli mi disse, uscendo di casa, che su lui allora era tramontato il dio del giorno – e in realtà credetti che il suo cuore fosse infranto e il mio col suo. Ma seppi, dopo, che prima di mezzogiorno egli era stato visto giocare un’animata partita ai birilli.

La prima domenica, dopo che egli era stato condotto in prigione, dovevo andare a trovarlo e desinar con lui.

Dovevo domandar della via fino a tal punto, e un po’

prima di quel punto avrei visto un altro punto, e un po’

prima di questo avrei visto un cortile, che dovevo attraversare, e andar dritto innanzi, finché non avessi visto un carceriere. E così feci; e quando finalmente vidi un carceriere (povero piccino che m’ero!), pensando che allorché Roderick Random era in una prigione per debiti, egli vi aveva visto un uomo che non aveva addosso che il brandello di un tappeto vecchio, il carceriere si dileguò dai miei occhi annebbiati e dal mio cuore saltellan-te.

Il signor Micawber m’aspettava accanto al cancello, e mi condusse nella sua camera al penultimo piano, e si mise a piangere. Egli solennemente mi scongiurò, ricor-296

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do, di apprendere da lui, di trarre un insegnamento dal suo fato; osservando che chi ha venti sterline all’anno di rendita, e spende diciannove sterline, diciannove scellini e sei pence, è felice; ma che, invece, è da compiangere, se ne spende ventuna. Dopo di che mi chiese uno scellino in prestito per la birra, mi fece un buono per la stessa somma sulla cassa della signora Micawber, mise da parte il fazzoletto e si rasserenò.

Ci sedemmo innanzi al fuoco, che aveva due mattoni sotto l’inferriata arrugginita, da un lato e dall’altro, per non consumare troppo carbone; ed ecco un altro debito-re, che divideva la camera del signor Micawber, ritornare dal forno col cosciotto castrato, che doveva formare il nostro pasto in comune. Poi io fui inviato alla camera di sopra, dal «Capitano Hopkins», coi saluti del signor Micawber, per dire che io ero il suo giovane amico, e domandare al capitano Hopkins di prestarmi per gentilezza un coltello e una forchetta.

Il capitano Hopkins mi prestò il coltello e la forchetta coi suoi saluti al signor Micawber. Vi era una signora molto sudicia in quella cameretta, e due ragazze pallide, le figliuole, con delle chiome scarmigliate in modo repugnante. Pensai che fosse meglio farsi prestare il coltello e la forchetta del capitano Hopkins, che il pettine del capitano Hopkins; il quale era anche lui nel peggiore arnese, con delle fedine enormi e un decrepito soprabito bruno, che non copriva nessun altro indumento. Vidi il 297

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Are sens