David Copperfield
monimento: «Clara!», quando mia madre si chinò su di me per dirmi addio.
Baciai lei e il bambino, e avevo una pena in cuore; ma non mi dispiaceva d’andar via; perché la lontananza tra noi c’era, e il distacco c’era, ogni giorno più. E non è tanto l’abbraccio che mi diede, fervido come poteva darmelo, che mi rivive nello spirito, ma ciò che lo seguì.
Ero nel carro del vetturale quando sentii chiamarmi da lei. Mi voltai, e la vidi sola, sul cancello del giardino, sollevare sulle braccia il bambino perché lo contemplas-si. Il tempo era freddo ma calmo; e non un capello le si mosse in testa, non una piega nella veste, nell’atto di guardarmi intenta e di sollevare il bambino.
Così la perdetti. Così la vidi dopo, nei miei sogni in convitto – fantasma silenzioso accanto al mio letto –
guardarmi con lo stesso volto intento, e col bambino sollevato nelle braccia.
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IX.
GENETLIACO MEMORABILE
Sorvolo su tutto ciò che avvenne in convitto, fino al-l’anniversario della mia nascita che cadeva nel mese di marzo. Salvo che Steerforth vi era ammirato più che mai, non ricordo nulla. Egli doveva andar via alla fine del semestre, se non prima, e ai miei occhi era più vivace e indipendente che per il passato, e perciò più simpatico che mai; ma oltre questo non rammento nulla. Par che il gran ricordo che contrassegna quel tempo nel mio spirito abbia disperso ogni traccia d’altra memoria intorno, per esistere solo.
M’è anche difficile credere che passasse un periodo di due mesi interi tra il mio ritorno a Salem House e l’arrivo di quel genetliaco. Posso comprender solo che fu così, perché dovette essere così; altrimenti mi sarei persuaso che non vi fosse stato intervallo di sorta, e che un avvenimento avesse seguito immediatamente l’altro.
Come ricordo bene il tempo che faceva quel giorno! Riveggo la nebbia che avvolgeva tutto fuori; e attraverso la nebbia il ghiaccio, candido e spettrale; sento i miei capelli coperti di brina appiccicarmisi alle guance; guardo in tutta la sua lunghezza la scuola, oscura prospettiva 221
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rotta qua e là da qualche candela che scoppietta nella mattinata nebbiosa; e il fiato dei compagni che si svolge e fuma nell’aria gelida, mentre ci soffiamo sulle dita e battiamo i piedi sul pavimento.
Fu dopo la colazione, e dopo che eravamo rientrati dalla palestra, che il signor Sharp entrò e disse:
– Davide Copperfield è atteso nel salotto. Aspettavo un paniere da parte di Peggotty, e a quell’ annunzio m’ illu-minai tutto. Parecchi compagni mi fecero ressa intorno, raccomandandomi di non dimenticarli nella distribuzione del contenuto del paniere, e uscii svelto e gioioso dal mio posto.
– Non correre, Davide – disse il signor Sharp. – C’è tempo, ragazzo mio, non correre.
Se ci avessi badato, mi sarei sorpreso del tono di compatimento con cui mi parlava; ma non ci pensai che dopo. Corsi nel salotto, e vi trovai il Signor Creakle, seduto a colazione, con la bacchetta e il giornale innanzi, e la signora Creakle con una lettera aperta in mano. Ma niente paniere.
– Davide Copperfield – disse la signora Creakle, condu-cendomi a un canapè, e sedendomisi accanto. – Ho bisogno di parlarti da solo a solo. Ho una cosa da dirti, figlio mio.
Il signor Creakle, che io naturalmente guardavo, scosse il capo senza guardarmi e interruppe un sospiro con un 222
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grosso boccone di pane imburrato.
– Tu sei troppo giovane per saper come il mondo muti ogni giorno – disse la signora Creakle – e come la gente se ne vada. Ma dobbiamo tutti apprenderlo, Davide: alcuni quando si è giovani, altri quando si è vecchi, e altri a tutte le età.
Io la guardavo intento.
– Quando sei ritornato qui alla fine delle vacanze – disse la signora Creakle, dopo una sosta, – a casa stavano tutti bene? – Dopo un’altra sosta: – La mamma come stava?
Tremai senza saper precisamente perché, e continuai a guardarla intento, non tentando neppur di risponderle.
– Perché – ella disse – mi rincresce di dirti che ho saputo stamane che la mamma sta molto male.
Una nebbia si levò fra la signora Creakle e me, e la sua persona sembrò che si agitasse in quel velo aereo per un istante. Poi sentii delle lagrime cocenti solcarmi la faccia, e la signora stette di nuovo ferma.
– È malata gravemente – aggiunse. In quell’istante seppi tutto.
– È morta.
Non era necessario dirmelo. Avevo già cacciato un grido di desolazione, e mi sentivo orfano nel mondo vasto.
Ella fu con me gentilissima. Mi tenne con lei tutto il 223
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giorno, e in qualche momento mi lasciò solo, e io piangevo tanto da assopirmi, e mi svegliavo per piangere di nuovo. Quando non potei piangere più, cominciai a pensare; e allora l’oppressione al petto mi si fece più grave, e il dolore divenne un’angoscia cupa, per la quale non c’era consolazione.
E pure il mio pensiero s’era fiaccato: non più intento alla sventura che mi pesava sul cuore, s’indugiava pigramente a fantasticare. Pensavo alla casa chiusa e silenziosa. Pensavo al bambino, che, come m’aveva detto la signora Creakle, da qualche tempo languiva, e che si credeva dovesse morire anche lui. Pensavo alla tomba di mio padre nel cimitero accanto a casa nostra, e a mia madre seduta sotto l’albero che m’era così noto. Salivo su una sedia, quando rimanevo solo, per vedere nello specchio come mi fossero diventati rossi gli occhi, e come mi si fosse fatto triste il viso.