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Io andai a coricarmi nel vecchio lettino a poppa del battello, e il vento urlava e gemeva attraverso la pianura come una volta. Ma ora non potevo fare a meno dall’im-258

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maginare che gemeva su quelli che se n’erano andati, e invece di pensare che il mare potesse sollevarsi nella notte e travolgere il battello, pensavo al mare che si era sollevato, dopo che avevo udito i suoi gemiti, travolgen-do la felicità di casa mia. Ricordo, come il vento e l’acqua cominciarono a rumoreggiar più piano al mio orecchio, di aver inserito una breve clausola nelle mie preghiere, e d’aver chiesto che potessi crescere per sposare l’Emilietta; dopo di che m’addormentai pieno d’amore.

I giorni passavano quasi alla stessa guisa di prima, eccetto – era una grande eccezione – che di rado ora vagavo sulla spiaggia con l’Emilietta, la quale aveva delle lezioni da imparare, del cucito da fare, ed era assente la maggior parte del giorno. Ma sentivo che se non fosse stato così, non mi sarebbe stato possibile di godere ora con lei le antiche scorribande. Selvaggia e piena di capricci infantili com’era, Emilia si mostrava più donnina di quanto avessi immaginato. In poco più di un anno sembrava si fosse molto allontanata da me. Mi voleva bene, ma mi derideva, e mi tormentava, e se le andavo incontro, tornava a casa di nascosto per un’altra via, e rideva sulla soglia di gusto vedendomi tornare indietro deluso. I migliori momenti erano quelli in cui si sedeva cheta al lavoro sulla porta e io, accoccolato sugli scalini di legno ai suoi piedi, le leggevo qualche cosa. Sembrava a me ora di non aver mai veduto tanta luce di sole come in quei radiosi pomeriggi d’aprile; di non aver mai veduto una figurina più fulgida di quella che m’ero abi-259

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tuato a vedere seduta sulla soglia del vecchio battello; di non aver mai più veduto un cielo simile, un’acqua simile, e simili bastimenti gloriosi veleggianti in un’aria d’o-ro.

La prima sera dopo il nostro arrivo, apparve Barkis, in una condizione visibilmente distratta e inconsistente, e con un mucchietto di arance legate in un fazzoletto. Siccome non fece allusione di sorta a quel suo fagottino, si pensò, quando se ne fu andato, che l’avesse dimenticato per distrazione. Cam gli corse dietro per restituirglielo, ma ritornò con la notizia ch’era destinato a Peggotty.

Dopo quell’avvenimento, egli apparve ogni sera esattamente alla stessa ora, e sempre con un fagottino, al quale non alludeva mai e che lasciava dietro la porta, regolarmente abbandonandolo. Quelle sue offerte affettuose erano della specie più varia e inaspettata. Fra esse ricordo due paia di zampe di maiale, un grosso cuscinetto da spilli, mezzo staio circa di mele, un paio di orecchini di vetro colorato, un mazzo di cipolle spagnuole, una scatola di domino, un canarino in una gabbia e un prosciutto salato.

La corte che faceva Barkis a Peggotty era, come la ricordo, assolutamente d’una specie particolarissima. Di rado egli diceva qualcosa; ma si sedeva accanto al fuoco nello stesso atteggiamento che aveva sul carro, e guardava gravemente Peggotty, che sedeva al lato opposto. Una sera, ispirato, immagino, dall’amore, diede un 260

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balzo sul moccolo di candela che serviva a lei per ince-rare il filo, se lo mise in tasca nella sottoveste, e se lo portò via. Dopo, il suo maggior piacere era di cavarlo, quando occorreva, di tasca – lo spiccicava dalla fodera mezzo liquefatto – e se lo serbava gelosamente di nuovo, dopo che aveva servito. Pareva che godesse un mondo in silenzio, e non si sentiva affatto in dovere di parlare. Anche quando conduceva Peggotty per una passeggiata sulla spiaggia, credo non facesse molti sforzi per essere loquace, contentandosi di chiederle, di tanto in tanto, se stesse bene; e ricordo che a volte, dopo che se n’era andato, Peggotty si gettava il grembiule sulla faccia, e rideva per una mezz’ora. Veramente, tutti più o meno ci divertivamo, tranne quella signora Gummidge, il fidanzamento della quale pareva si fosse svolto esattamente nelle stesse condizioni, perché lo spettacolo di Barkis e Peggotty la costringeva a ricordare continuamente il «vecchio».

Finalmente, quando fu quasi spirato il termine della mia visita, fu progettato che Peggotty e Barkis dovessero fare una scampagnata d’un giorno insieme, e che l’Emilietta ed io dovessimo accompagnarli. Dormii d’un sonno interrotto la notte, in attesa del piacere di stare un giorno intero con l’Emilietta. Fummo tutti in piedi per tempo la mattina, e mentre eravamo ancora a colazione, Barkis apparve in lontananza guidando il carro verso l’oggetto dei suoi desideri.

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Peggotty era vestita come al solito, in un lutto modesto e semplice; ma Barkis luceva d’un nuovo abito turchino, tagliatogli dal sarto con tanta abbondanza, che le maniche avrebbero reso inutili i guanti nell’inverno più rigido, e con un bavero così alto che gli teneva ritti i capelli sul cranio. I bottoni lucenti erano pure enormi.

Completato nell’abbigliamento da un paio di calzoni di panno color caffè e da una sottoveste color camoscio, Barkis era un fenomeno di dignità. Fuori, nell’affaccen-damento della partenza, vidi il pescatore Peggotty con in mano una scarpa vecchia, che doveva esserci gettata dietro come un augurio di buona fortuna. Ed egli la offerse alla signora Gummidge perché compiesse il rito.

– No. È meglio che la getti un altro, Daniele – disse la signora Gummidge. – Io sono una povera donna solitaria e abbandonata, e tutto ciò che mi ricorda le donne che non sono solitarie e abbandonate mi contraria.

– Su, sposina! – esclamò il pescatore Peggotty. –

Prendila e gettala.

– No, Daniele – rispose la signora Gummidge, gemendo e scotendo il capo. – Se sentissi meno, potrei fare di più. Tu non senti come me. Tu non senti come me, Daniele; a te le cose non ti vanno di traverso, no; né tu vai di traverso alle cose. È meglio che lo faccia tu.

Ma qui Peggotty, che era corsa affaccendata dall’uno al-l’altro, baciando tutti, gridò dal carro, nel quale eravamo 262

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finalmente tutti (Emilia e io su due sedioline, l’uno accanto all’altro), che doveva gettarla la signora Gummidge. Così la gettò la signora Gummidge, e, mi dispiace di dirlo, proiettando un’ombra sullo spettacolo festoso della nostra partenza, perché scoppiò immediatamente a piangere, e si abbandonò senza più forze nelle braccia di Cam, dichiarando che sapeva d’essere di peso in quella casa, e che sarebbe stato meglio portarla subito all’ospizio. Ottima idea, pensai, che Cam avrebbe dovuto subito eseguire alla lettera.

Così partimmo per la nostra scampagnata; e la prima cosa da noi fatta fu di fermarci a una chiesa, dove Barkis, dopo aver legato il cavallo a un pilastro, entrò con Peggotty, lasciando me e l’Emilietta seduti soli ai nostri posti. Colsi l’occasione per cingere col braccio la vita dell’Emilia, e dichiararle che giacché io presto me ne sarei andato, ci dovevamo proporre di volerci bene e d’essere felici tutto il giorno. L’Emilietta acconsentì, e mi permise di baciarla, dopo di che mi sentii abbastanza ardito di dirle che non avrei potuto mai voler bene a un’altra, e ch’ero preparato a versare il sangue di chiunque volesse aspirare al suo affetto.

Come rise l’Emilietta di tutto questo! Con che aria di gravità e di serietà, come se fosse immensamente più vecchia e più savia di me, l’incantevole fanciulla disse che io ero «uno sciocco», e poi rise così squisitamente, che dimenticai l’umiliazione di quell’epiteto per il pia-263

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cere di guardarla.

Barkis e Peggotty si trattennero parecchio in chiesa, ma ne uscirono filialmente, e via a scarrozzare per la campagna. Mentre si correva, Barkis si volse a me e disse con una strizzatina d’occhio – a proposito, appena avrei immaginato prima che sapesse strizzar l’occhio:

– Che nome scrissi quella volta sul carro?

– Clara Peggotty – risposi.

– Che nome dovrei scrivere ora, se qui ci fosse un copertone?

– Ancora Clara Peggotty – suggerii.

– Clara Peggotty Barkis – disse con una risata che fece traballare il carro.

In una parola, s’erano sposati, e per null’altro erano entrati in chiesa. Peggotty aveva voluto che il matrimonio si celebrasse senza apparati, e così s’era fatto, e non v’erano stati spettatori della cerimonia. Ella parve un po’ confusa, quando Barkis diede questo annunzio della loro unione, e non poté abbracciarmi abbastanza in segno del suo inalterabile affetto; ma tosto si riebbe di nuovo, e si disse contenta che la faccenda fosse finita.

Arrivammo per una viottola a una piccola osteria, dove eravamo aspettati, e dove ci fu servito un pranzetto squisito. Passammo la giornata grandemente soddisfatti. Se Peggotty si fosse maritata ogni giorno negli ultimi dieci 264

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anni, non si sarebbe potuta mostrare più a suo agio: non c’era alcuna diversità in lei: era proprio la stessa di prima, e volle fare una passeggiata con me e l’Emilietta prima del tè, mentre Barkis filosoficamente fumava la pipa, e si deliziava, immagino, nella contemplazione della propria felicità. Se mai, questo dové aguzzargli l’appetito; perché ricordo chiaramente che, sebbene avesse mangiato una gran quantità di verdura a desinare, e avesse finito con un paio di polli, fu costretto a ricorrere al prosciutto cotto all’ora del tè, facendovi man bassa senza alcuna commozione.

Ho spesso pensato, di poi, che strane, innocenti, singolari nozze dovettero mai essere quelle! Salimmo sul carro di nuovo la sera, per tornare a casa, e fu una dolce passeggiata. Guardavamo il cielo, e parlavamo di stelle.

Ero io che le indicavo, e apersi lo spirito di Barkis a una vastità stupefacente. Gli dissi tutto ciò che ne sapevo, ma egli avrebbe creduto qualunque cosa che mi fosse piaciuto di dargli a bere; perché aveva una profonda venerazione per la mia dottrina, e informò la moglie proprio in quell’occasione – e a me non sfuggì – che ero

«un piccolo Roscius»; con che intendeva dire che ero un prodigio.

Quando il soggetto delle stelle fu esaurito, o piuttosto quand’ebbi esaurito le facoltà mentali di Barkis, l’Emilietta e io ci facemmo un mantello d’una vecchia coperta, e ce ne stemmo così avvolti per il resto del viaggio.

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Are sens