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lo. È inutile fingerlo. Facci veder l’oro. Facci vedere un po’ dell’oro che t’ha dato il diavolo. Su, è nella fodera del materasso, Carlo. Scucila, daccene un po’». Questo, e le molte offerte di coltelli per fare quell’operazione, lo esasperavano a un grado tale, che tutta la giornata fu una successione di rincorse da parte sua, e di fughe da parte dei ragazzi. Nella rabbia che lo assaliva, a volte mi prendeva per uno degli offensori e si precipitava su di me ghignando come se volesse farmi a brani; poi, a un tratto riconoscendomi, proprio a tempo, si rintanava nella bottega, e si buttava sul letto, come giudicavo dal tono della voce, a cantare freneticamente, nella sua solita cadenza, la «Morte di Nelson»; con un «: oh!» ad ogni verso, e innumerevoli «gorù» disseminati da per tutto. Come se per me questo non fosse abbastanza grave, i ragazzi, notando la mia pazienza e la mia perseveranza nello star seduto di fuori, semivestito, e attribuen-domi qualche relazione col padrone della bottega, mi tiraron dei sassi e mi ingiuriarono tutto il giorno.

Egli tentò molte volte d’indurmi a fare un baratto: una volta uscì fuori con una lenza, poi con un violino, poi con un tricorno, e poi con un flauto. Ma io resistetti a tutte le offerte, in atteggiamento disperato; chiedendogli sempre, con le lagrime agli occhi, o il denaro o la giacca. Finalmente cominciò a pagarmi a un soldo alla volta; e gli ci vollero due ore per salire, a lenti gradi, a una lira.

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– Oh, gli occhi e la schiena! – allora esclamò, facendo tristamente capolino dalla bottega, dopo una lunga sosta. – Te ne andrai per altri quattro soldi?

– Non posso – dissi; – morirei di fame.

– Oh, i polmoni e il fegato! Te ne andrai per altri due soldi?

– Me ne andrei senz’altro, se potessi – dissi; – ma ho bisogno assolutamente del denaro.

– Oh, go... ruù! (è veramente impossibile rappresentare il suo modo di trarre a sommo questa esclamazione, nell’atto che si metteva contro un pilastro della bottega, non mostrando altro che la testa) – te ne andrai per altri quattro soldi?

Ero così debole e stanco che accettai quell’offerta, e prendendo, non senza un tremito, il denaro dai suoi artigli, me n’andai, poco prima del tramonto, più affamato e assetato che mai. Ma, con una spesa di sei soldi, presto mi rifocillai, completamente; e, con spirito più leggero, feci zoppicando sette miglia di strada.

Il mio letto la notte me lo largì un altro pagliaio, e vi riposai comodamente, dopo essermi lavato in un torrente i piedi coperti di bolle e di averli avvolti, come meglio mi fu possibile, con delle foglie fresche. Quando mi rimisi in viaggio la mattina, vidi che la strada passava in mezzo a una fila di campi di luppoli e di orti. S’e-ra già innanzi nella stagione, e occhieggiavan dagli orti 332

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le mele mature; e in qualche campo si lavorava già a raccogliere i luppoli. Tutto mi parve molto bello, e mi proposi di dormire fra i luppoli quella sera, parendomi una lieta compagnia quella lunga prospettiva di pali, in-ghirlandati di foglie.

I vagabondi m’apparivan più tristi che mai quel giorno e m’incutevano una paura, di cui conservo ancora vivissimo il ricordo. Alcuni avevano una faccia di bricconi matricolati, e mi saettavan di malvagi sguardi; e si fermavano, a volte, gridandomi di tornare indietro o aspettarli; e, se io m’affidavo alle gambe, mi tiravan dei sassi. Ricordo un giovane – un calderaio, a giudicar dal saccone che aveva addosso e dal braciere – che viaggiava con una donna, e mi squadrò tutto, saettandomi d’occhiate sinistre; e poi mi gridò con voce così terribile e imperiosa di tornare indietro, che voltandomi mi fermai.

– Vieni qui, quando ti chiamo – disse il calderaio – o t’apro la pancia.

Giudicai prudente d’ubbidirgli. Andando verso di lui, e tentando di propiziarmelo con gli sguardi, osservai che la donna aveva un occhio livido.

– Dove vai? – disse il calderaio, afferrandomi di petto della camicia con la mano annerita.

– Vado a Dover – dissi.

– E di dove vieni? – chiese il calderaio, dando alla mano un altro giro nella camicia, per tenermi più forte.

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– Da Londra – dissi.

— Che mestiere fai? – disse il calderaio. – Sei un ladro?

– N... no – dissi.

– No? Guarda che se tu credi di spacciarti onesto con me, ti faccio saltare le cervella.

Con la mano libera, fece l’atto di colpirmi, e poi mi squadrò da capo a piedi.

– Hai addosso i soldi per una pinta di birra? – disse il calderaio, – Se li hai, dalli qua, prima che me li pigli.

Certo glieli avrei dati, se non avessi incontrato lo sguardo della donna, la quale scotendo leggermente il capo, formava «No» con le labbra.

– Io sono molto povero – dissi, tentando di sorridere

– e non ho denaro.

– Che dici? – disse il calderaio, guardandomi con occhi così aguzzi, che quasi temei mi vedesse il denaro in tasca.

– Signore... – balbettai.

– E come mai – disse il calderaio – porti la cravatta di seta di mio padre? Da’ qui. – E me la tolse in un momento, e la gettò alla donna.

La donna scoppiò in una risata, come se pensasse che la cosa fosse uno scherzo, e me la ridiede, ripetendo 334

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di nuovo il cenno col capo, e, atteggiando le labbra alla parola «Vattene». Prima che potessi obbedire, però, il calderaio mi strappò di mano la cravatta con una violenza che mi scosse come una piuma, e mettendosela attorno al collo, si volse alla donna con una imprecazione e le diede un colpo tale che la fece stramazzare al suolo.

Mi sembra ancora di vederla cadere all’indietro in mezzo alla strada, e rimanervi a giacere coi capelli tutti incipriati dalla polvere e il cappellino lontano. Quando, a una certa distanza, mi voltai, vidi lei seduta sull’argine, asciugarsi con un lembo dello scialle il sangue che le colava dalla faccia, e lui continuare la strada.

Quell’avventura mi spaventò tanto che, poi, ogni volta che vedevo venirmi incontro qualcuno della stessa risma, tornavo indietro per trovare un nascondiglio, dove attendere che la persona si fosse allontanata; e questo avveniva così spesso, che andai innanzi con molta lentezza. Ma in questa difficoltà, come in tutte le altre del mio viaggio, ero sostenuto dall’immagine di mia madre nella sua giovinezza prima che io venissi al mondo.

Essa mi teneva sempre compagnia. Era fra i luppoli, dove io mi misi a dormire; era con me la mattina quando mi svegliai; e mi precedette per tutta la giornata.

D’allora in poi, l’ho associata nel mio pensiero alla via assolata della città di Canterbury, la quale mi apparve, per dir così, assopita nella luce viva, con lo spettacolo dei suoi edifici antichi e dei suoi cancelli e della sua Cattedrale, solenne e grigia e aguzza di torri cinte da 335

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voli di cornacchie. Quando arrivai, finalmente, sulle nude e vaste dune di Dover, l’immagine di mia madre mi fece guardar speranzoso quella solitudine, e non mi abbandonò finché non raggiunsi lo scopo principale del mio viaggio e non misi effettivamente il piede nella città, il sesto giorno della mia fuga. Ma allora, strano a dirsi, quando già calcavo con le scarpe a brandelli, e tutto arso dal sole e polveroso e seminudo, il luogo per cui avevo tanto peregrinato, essa sembrò svanisse come un sogno, lasciandomi scoraggiato e abbattuto.

Di mia zia chiesi prima fra i pescatori, e ne ebbi varie risposte. Uno mi disse che abitava nel faro del sud, e che vi s’era strinata i baffi; un altro che era legata alla boa fuori del porto, e si poteva visitarla solo all’ora della bassa marea; un terzo che era chiusa nella prigione di Maidstone per ratto di bambini; un quarto che era stata veduta, durante il temporale di pochi giorni prima, correre dritta a Calais, a cavallo d’una granata. I cocchieri, che interrogai dopo, si mostrarono similmente scherzosi e irriverenti; e i bottegai, cui non piacque il mio aspetto, mi risposero in generale, senza aspettare che aprissi bocca, che l’elemosina l’avevano già fatta. Mi sentii più angosciato e abbandonato che in tutto il tempo del viaggio. Il denaro era finito, e non avevo più nulla da vendere; ero affamato, assetato e stanco; e mi sembrava d’essere più lontano dal mio scopo, che se fossi rimasto effettivamente a Londra.

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