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II.
OSSERVO
I primi oggetti che assumono innanzi a me dei contorni precisi, allorché cerco di distinguere qualche cosa nella pagina confusa della mia infanzia, sono mia madre, dalla folta e bella capigliatura e dalle forme giovanili, e Peggotty senza alcuna forma, ma dagli occhi così oscuri che sembravano abbuiarle tutta la faccia, e dalle guance e le braccia così sode e rosse, che mi domandavo perché gli uccelli non venissero a beccargliele invece di prender di mira le mele.
Credo di poterle ricordare tutte e due, separate a breve distanza e rimpicciolite al mio sguardo dal loro incur-varsi o dal loro inginocchiarsi sul pavimento, mentre trotterellavo vacillando dall’una all’altra. M’è rimasta un’impressione, che non riesco a distinguere da un ricordo vero e proprio, del tocco dell’indice di Peggotty, quando ella me lo tendeva: per il continuo agucchiare era diventato così scabro, che mi pareva di tastare una minuscola grattugia per la noce moscata. Forse questa è una mia semplice fantasia, ma credo che la memoria della maggior parte di noi possa risalir più lontano di quanto generalmente si pensi; appunto come credo che 27
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la facoltà d’osservazione sia in molti bambini, per esattezza ed acume, addirittura prodigiosa. Di parecchi adulti, anzi, notevoli per questo rispetto, credo si possa dire, con maggior proprietà, non che abbiano acquistato, ma che non abbiano mai perduto quella facoltà; tanto più che simili uomini, come m’è dato spesso d’osservare, conservano certa freschezza, certa gentilezza e certa capacità di simpatia, che son certo qualità infantili rimaste in essi intatte fino all’età matura.
Indugiandomi a dir questo, potrei temere di divagare; ma questo mi dà l’occasione di dichiarare che tali conclusioni le traggo in parte dalla mia esperienza personale: se dovesse apparire da questa mia narrazione che fin da bambino avevo un’acuta facoltà d’osservazione e che da uomo ho una memoria tenace della mia fanciullezza, non mi periterei dall’asserire che credo d’avere indubbiamente tutte e due queste caratteristiche.
Cercando, come dicevo, di discerner qualche cosa nella pagina confusa della mia infanzia, i primi oggetti che io posso ricordare come per sé stanti fuor da una nebbia di cose, sono mia madre e Peggotty. Che altro ricordo? Vediamo.
Fuori della nuvola, ecco casa nostra – immagine a me nota, anzi familiarissima, nel mio primo ricordo. A pianterreno è la cucina ove regna Peggotty; la cucina che si apre su un cortiletto; nel bel mezzo del cortiletto, su un palo, v’è una colombaia senza l’ombra d’un co-28
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lombo; in un angolo, c’è un gran canile, ma senza il cane; e poi c’è un gran numero di polli che mi sembran molto grossi e terribili e vagano intorno minacciosi e selvaggi. C’è un gallo che spicca un salto su un pilastro per fare chicchirichì, e par mi fissi con un’occhiata così fiera, mentre lo guardo dalla finestra della cucina, che mi fa rabbrividire. La notte mi sogno le oche che mi corron dietro, fuori del cancello, allungando il collo e dondolando il corpo appena m’arrischio da quella parte; come un uomo circondato da bestie feroci può sognare i leoni.
Ecco un corridoio lungo lungo – mi sembra di non vederne la fine – che mena dalla cucina di Peggotty alla porta d’ingresso. Sul corridoio s’apre una dispensa buia, ove la sera non entro mai; perché non so che ci possa essere fra quei tini e quei vasi e quelle casse vecchie, quando dentro non v’è qualcuno con una lucerna a illu-minarne un cantuccio, e a farne sprigionare un tanfo di muffa, misto con odor di sapone, di sottaceti, di pepe e di caffè, in un soffio solo. Poi vi sono i due salotti: il salotto nel quale ci tratteniamo la sera mia madre, io e Peggotty – perché Peggotty sta sempre con noi quando ha finito di rigovernare e non ci son visitatori – e il salotto di cerimonia, dove ci tratteniamo la domenica: sontuoso ma non così comodo. Il salotto di cerimonia mi fa sempre una certa impressione di tristezza, perché Peggotty m’ha narrato – non so precisamente quando, ma certo alcuni secoli fa – dei funerali di mio padre, e 29
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della gente vestita a nero che s’era raccolta là dentro. Ivi mia madre una sera di domenica legge a Peggotty e a me come Lazzaro fosse risuscitato dal sepolcro. E io ne sono così atterrito, che esse son costrette a sollevarmi dal letto, e a mostrarmi dalla finestra il cimitero silente, con tutti i morti a riposo nelle tombe, sotto la luna solenne.
Non v’è nulla in nessuna parte che uguagli il verde dell’erba di quel cimitero; nulla più ombroso di quegli alberi; nulla più calmo di quelle pietre sepolcrali. Quando m’inginocchio, la mattina presto, sul mio lettino, in una cameretta attigua alla camera di mia madre, e guardo fuori, vi veggo le pecore pascere tranquillamente.
Veggo la luce rosea splendere sulla meridiana, e dico entro di me: «Chi sa se la meridiana è contenta di poter segnare ancora l’ora?».
Ecco il nostro banco in chiesa. Che schienale alto! Sta accanto a una finestra donde si vede casa nostra. Durante il servizio del mattino, Peggotty leva gli occhi per accertarsi se non venga scassinata dai ladri o se non pigli fuoco. Ma benché il suo sguardo vaghi di qua e di là, Peggotty s’irrita se il mio fa lo stesso, e mi fissa accigliata sul banco, per farmi intendere che non debbo perder d’occhio il ministro. Ma non posso sempre guardar lui – lo conosco senza quella cosa bianca addosso, e temo ch’egli mi domandi perché io lo guardi così fisso, e che possa interrompere a un tratto il servizio per dir-30
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melo; – e che debbo fare? So che sta male sbadigliare, ma debbo pur fare qualche cosa. Guardo mia madre, la quale finge di non vedermi. Fisso per un istante un ragazzo nella navata, ed egli mi fa le boccacce. Guardo il raggio di sole che giunge alla porta attraverso il portico, e vi scorgo una pecorella smarrita – non un peccatore, ma proprio un individuo del genere ovino – la quale par stia deliberando lì lì d’entrare in chiesa. Comprendo che se continuassi a guardarla ancora, sarei tentato di dir qualche cosa ad alta voce, e allora che ne sarebbe di me? Guardo le lapidi sepolcrali sul muro e tento di figurarmi il parrocchiano defunto signor Bodger, che era stato ammalato a lungo, e i sentimenti della signora Bodger quando s’aggravò e i medici accorsero invano al capezzale del morente. Chi sa se non venne chiamato anche il dottor Chillip, che non valse a nulla; e se fu chiamato, chi sa se è contento di ricordarsene una volta la settimana. Il mio sguardo lascia il signor Chillip, che sfoggia una bella cravatta domenicale, e si posa sul pergamo; e penso che bel posto sarebbe:per giocarvi, e che bel castello rappresenterebbe, se per la scaletta venisse ad assaltarlo un altro ragazzo, al quale potessi scagliare in testa il guanciale di velluto rosso coi fiocchi d’oro!
Intanto gli occhi a poco a poco mi si chiudono, e, dopo aver provato la sensazione di udir nell’afa un canto sonnolento del ministro, casco dal banco con un tonfo, e son portato fuori, più morto che vivo, nelle braccia di Peggotty.
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Ed ora veggo la facciata di casa nostra con le finestre della camera da letto spalancate per lasciar entrare l’aria dolcemente fragrante, e ancora sospesi agli olmi in fondo al giardino sul davanti gli sbrindellati vecchi nidi di cornacchie. Ora sono nel giardino di dietro – oltre il cortiletto dalla colombaia e dal canile vuoti – ed è una vera riserva di farfalle, come io lo ricordo, con una siepe alta, e un cancello e un prato erboso; dove i frutti gremiscon gli alberi, più maturi e più belli di quanti altri mai ne vidi poi in qualunque altro giardino, e dove mia madre ne riempie un paniere, mentre io le sto da presso, ingol-lando uvaspina, e cercando di darmi un’aria innocente.
Un gran vento si leva, e l’estate in un momento è passata. Nel crepuscolo invernale noi ci divertiamo a ballare nel salotto. Quando mia madre non ha più fiato e si riposa in una poltrona, la veggo che s’avvolge i riccioli intorno alle dita e si raddrizza sulla vita, e nessuno sa meglio di me ch’ella è lieta del suo bell’aspetto e orgogliosa della sua leggiadria.
Questa è una delle mie primissime impressioni. Questa, e il sentimento che entrambi avevamo un po’ paura di Peggotty, e che ci sottomettevamo quasi in tutto a lei, furono fra le prime opinioni – se m’è lecito chiamarle così – che io mai derivassi da ciò che vedevo.
Una sera io e Peggotty sedevamo soli accanto al fuoco nel salotto, e io avevo letto a Peggotty qualche cosa che trattava di coccodrilli. Non avevo letto forse con molta 32
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chiarezza, o la poverina forse era molto distratta, perché ricordo che le era rimasta, dopo la mia lettura, una molto vaga impressione, e credeva ch’essi fossero una specie di legumi. Ero stanco di leggere, e assonnato a morte; ma avendo il permesso, come un prezioso regalo, di stare in piedi finché mia madre non fosse rientrata dall’
aver passato la sera da una vicina, sarei piuttosto morto al mio posto (naturalmente) che andato a letto. Ero arrivato a quel grado di sonnolenza che mi faceva veder Peggotty gonfiarsi e diventare immensamente grande.
Cercavo di sostenermi le palpebre con le dita e la fissavo, con insistenza mentre essa era occupata a lavorare; fissavo il moccolo di cera, che le serviva per il filo –
come pareva vecchio, con tante grinze per tutti i versi! –