Ha lasciato andare un sospiro trattenuto. "Non fa niente. Non abbiamo neanche gli stessi anni".
Si è passata la mano tra i capelli. "Ciao, allora.
"Ciao.
Se n'è andata tirandosi dietro Togo.
Mi è venuta paura delle vipere, così, all'improvviso.
Fino a quel giorno, quando salivo sulla collina, non ci avevo pensato mai al-le vipere.
Continuava a balenarmi davanti l'immagine di quel bracco che ad aprile era stato morso sul naso da una vipera. La povera bestia era stesa in un angolo del capannone, ansimante, con l'occhio fisso, la schiuma bianca sulle gengive e la lingua di fuori.
"Oramai non c'è più niente da fare". Aveva detto il padre del Teschio. "Il veleno gli è entrato nel cuore.
Stavamo tutti in cerchio a guardarlo.
"Portiamolo a Lucignano. Dal dottore degli animali," avevo proposto.
"Soldi buttati. E' un ladro quello, gli fa una siringa d'acqua e ti ridà il cane morto. Andate via, forza, lasciatelo morire in pace". Ci aveva spinti fuori. Maria si era messa a piangere.
Attraversavo il grano e mi sembrava di vedere serpenti strisciare dappertutto. Saltavo come una quaglia e con una mazza menavo gran colpi per terra, era un fuggi fuggì di grilli e cavallette. Il sole picchiava in testa e sul collo, non c'era un alito di vento e in lontananza la pianura era tutta sfocata.
Quando sono arrivato al margine della valle ero sfinito. Un po' d'ombra e una bevuta d'acqua era quello che ci voleva, mi sono avviato nel boschetto.
Ma c'era qualcosa di diverso dal solito. Mi sono fermato.
Sotto gli uccelli, i grilli e le cicale si sentiva della musica.
Mi sono precipitato dietro un tronco.
Da lì non riuscivo a vedere niente, ma sembrava che la musica veniva dalla casa.
Dovevo andarmene via di corsa, ma la curiosità mi spingeva a dare un'oc-chiata. Se facevo attenzione, se rimanevo tra gli alberi, non mi vedevano. Na-scondendomi tra le querce mi sono avvicinato allo spiazzo.
La musica era più forte. Era una canzone famosa. L'avevo sentita un sacco di volte. La cantava una donna bionda con un signore elegante. Li avevo visti alla televisione. Mi piaceva quella canzone.
C'era un masso coperto da ciuffi verdi di muschio proprio al limitare della radura, un buon riparo, ci sono strisciato dietro.
Ho allungato la testa e ho spiato.
Parcheggiata davanti alla casa c'era la 127 di Felice, con le portiere e il ba-gagliaio aperti. La musica veniva dall'autoradio. Si sentiva male, gracchiava.
Felice è uscito dalla stalla. Era in slip. Ai piedi aveva gli anfibi e intorno al collo il solito fazzoletto nero. Ballava a braccia spalancate e ancheggiava co-me una danzatrice del ventre.
"Non cambi mai, non cambi mai, non cambi mai... "Cantava in falsetto, insieme alla radio.
Poi si fermava e con voce grave continuava.
"Tu sei il mio ieri, il mio oggi. Il mio sempre.
Inquietudine.
E da femmina. "Adesso, ormai, ci puoi provare. Chiamami tormento, dai.
Già che ci sei.
Ha indicato qualcuno. "Tu sei come il vento che porta i violini e le rose.
"Parole, parole, parole...
"Ascoltami.
"Parole, parole, parole...
"Ti prego.
Era molto bravo. Faceva tutto da solo. Maschio e femmina. E quando era uomo faceva il duro. Occhio a mezz'asta e bocca socchiusa.
"Parole, parole, parole...
"Io ti giuro.
Poi si è buttato a terra, nella polvere, e ha cominciato a fare le flessioni.
Con due braccia, con una, con lo schiaffo, e cantava tutto contratto.
"Parole, parole, parole, parole, parole, soltanto parole, parole tra noi.