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Poi c'ero io, Michele. Michele Amitrano. E anche quella volta ero terzo, stavo salendo bene, ma per colpa di mia sorella adesso ero fermo.

Stavo decidendo se tornare indietro o lasciarla là, quando mi sono ritrovato quarto. Dall'altra parte del crinale quella schiappa di Remo Marzano mi aveva superato. E se non mi rimettevo subito ad arrampicarmi mi sorpassava pure Barbara Mura.

Ut! Sarebbe stato orribile. Sorpassato da una femmina. Cicciona.

Barbara Mura saliva a quattro zampe come una scrofa inferocita. Tutta su-data e coperta di terra.

"Che fai, non vai dalla sorellina? Non l'hai sentita? Si è fatta male, poveri-na," ha grugnito felice. Per una volta non sarebbe toccata a lei la penitenza.

"Ci vado, ci vado... E ti batto pure". Non potevo dargliela vinta così.

Mi sono voltato e ho cominciato a scendere, agitando le braccia e urlando come un sioux. I sandali di cuoio scivolavano sul grano. Sono finito culo a terra un paio di volte.

Non la vedevo. "Maria! Maria! Dove stai?

"Michele...

Eccola. Era lì. Piccola e infelice. Seduta sopra un cerchio di steli spezzati.

Con una mano si massaggiava una caviglia e con l'altra si teneva gli occhiali.

Aveva i capelli appiccicati alla fronte e gli occhi lucidi. Quando mi ha visto, ha storto la bocca e si è gonfiata come un tacchino.

"Michele...?

"Maria, mi hai fatto perdere la gara! Te l'avevo detto di non venire, man-naggia a te". Mi sono seduto. "Che ti sei fatta?

"Sono inciampata. Mi sono fatta male al piede e... " Ha spalancato la bocca, ha strizzato gli occhi, ha dondolato la testa ed è esplosa a frignare. "Gli occhiali! Gli occhiali si sono rotti!

Le avrei mollato uno schiaffone. Era la terza volta che rompeva gli occhiali da quando era finita la scuola. E ogni volta con chi se la prendeva mamma?

«Devi stare attento a tua sorella, sei il fratello maggiore».

«Mamma, io...»

«Niente mamma io. Tu non hai ancora capito, ma io i soldi non li trovo nell'orto. La prossima volta che rompete gli occhiali ti prendi una di quelle punizioni che...»

Si erano spezzati al centro, dove erano stati già incollati. Erano da buttare.

Mia sorella intanto continuava a piangere.

"Mamma... Si arrabbia... Come si fa?

"E come si fa? Ci mettiamo lo scotch. Alzati, su.

"Sono brutti con lo scotch. Sono bruttissimi.

Non mi piacciono.

Mi sono infilato gli occhiali in tasca. Senza, Maria non ci vedeva, aveva gli occhi storti e il medico aveva detto che si sarebbe dovuta operare prima di diventare grande. "Non fa niente. Alzati.

Ha smesso di piangere e ha cominciato a tirare su con il naso. "Mi fa male il piede.

"Dove?" Continuavo a pensare agli altri, dovevano essere arrivati sopra la collina da un'ora.

Ero ultimo. Speravo solo che il Teschio non mi facesse scontare una penitenza troppo dura. Una volta che avevo perso una gara mi aveva obbligato a correre nell'ortica.

"Dove ti fa male?

"Qua". Mi ha mostrato la caviglia.

"Una storta. Non è niente. Passa subito.

Le ho slacciato la scarpa da ginnastica e l'ho sfilata con molta attenzione.

Come avrebbe fatto un dottore. "Ora va meglio?

"Un po'. Torniamo a casa? Ho sete da morire.

E mamma...

Aveva ragione. Ci eravamo allontanati troppo.

E da troppo tempo. L'ora di pranzo era passata da un pezzo e mamma doveva stare di vedetta alla finestra.

Lo vedevo male il ritorno a casa.

Ma chi se lo immaginava poche ore prima.

Quella mattina avevamo preso le biciclette.

Di solito facevamo dei giri piccoli, intorno alle case, arrivavamo ai bordi dei campi, al torrente secco e tornavamo indietro facendo le gare.

La mia bicicletta era un ferro vecchio, con il sellino rattoppato, e così alta che dovevo piegarmi tutto per toccare a terra.

Tutti la chiamavano la Scassona. Salvatore diceva che era la bicicletta degli alpini. Ma a me piaceva, era quella di mio padre.

Se non andavamo in bicicletta ce ne stavamo in strada a giocare a pallone, a ruba bandiera, a un due tre stella o sotto la tettoia del capannone a non fa-re niente.

Potevamo fare quello che ci pareva. Macchine non ne passavano. Pericoli non ce n'erano. E i grandi se ne stavano rintanati in casa, come rospi che a-spettano la fine del caldo.

Il tempo scorreva lento. A fine estate non vedevamo l'ora che ricominciasse la scuola.

Quella mattina avevamo attaccato a parlare dei maiali di Melichetti.

Si parlava spesso, tra noi, dei maiali di Melichetti. Si diceva che il vecchio Melichetti li addestrava a sbranare le galline, e a volte pure i conigli e i gatti che raccattava per strada.

Il Teschio ha sputato uno spruzzo di saliva bianca. "Finora non ve l'ho mai raccontato. Perché non lo potevo dire. Ma ora ve lo dico: quei maiali si sono mangiati il bassotto della figlia di Melichetti.

Are sens