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"Aspetta". Le ho soffiato due volte sulla gamba. Poi ho affondato le mani nella terra rovente.

Ne ho presa un po', ci ho sputato sopra e gliel'ho spalmata sulla caviglia.

"Così passa". Sapevo che non funzionava. La terra era buona per le punture di api e l'ortica, non per le storte, ma forse ci cascava. "Va meglio?

Si è pulita il naso con un braccio. "Un po'.

"Ce la fai a camminare?

"Si.

L'ho presa per mano. "Allora andiamo, forza, che siamo ultimi.

Ci siamo avviati verso la cima. Ogni cinque minuti Maria doveva sedersi per far riposare la gamba. Per fortuna si è alzato un po' di vento che ha migliorato le cose. Frusciava nel grano, facendo un suono che assomigliava a un respiro. A un tratto mi è sembrato di scorgere un animale passarci accanto. Ne-ro, veloce, silenzioso. Un lupo? Non c'erano lupi dalle nostre parti. Forse una volpe o un cane.

La salita era ripida e non finiva mai. Davanti agli occhi avevo solo grano, ma quando ho cominciato a vedere uno spicchio di cielo ho capito che mancava poco, che la cima era là, e senza neanche rendercene conto, ci stavamo sopra.

Non c'era proprio niente di speciale. Era coperta di grano come tutto il resto. Sotto i piedi avevamo la stessa terra rossa e cotta. Sopra la testa lo stesso sole incandescente.

Ho guardato l'orizzonte. Una foschia lattiginosa velava le cose. Il mare non si vedeva. Si vedevano però le altre colline, più basse, e la fattoria di Melichetti con i suoi recinti per i maiali e la gravina e si vedeva la strada bianca che tagliava i campi, quella lunga strada che avevamo percorso in bicicletta per arrivare fino a lì. E, piccola piccola, si vedeva la frazione dove abitavamo.

Acqua Traverse. Quattro casette e una vecchia villa di campagna disperse nel grano. Lucignano, il paese vicino, era nascosto dalla nebbia.

Mia sorella ha detto: "Voglio guardare pure io.

Fammi guardare.

Me la sono messa sulle spalle, anche se non mi reggevo in piedi dalla fatica. Chissà cosa vedeva senza occhiali.

"Dove stanno gli altri?

Dov'erano passati l'ordine delle spighe era sparito, molti steli erano piegati in due e alcuni erano spezzati. Abbiamo seguito le tracce che portavano verso l'altro versante della collina.

Maria mi ha stretto la mano e mi ha conficcato le unghie nella pelle. "Che schifo!

Mi sono voltato.

Lo avevano fatto. Avevano impalato la gallina.

Se ne stava in punta a una canna. Le zampe penzoloni, le ali spalancate.

Come se prima di rendere l'anima al Creatore si fosse abbandonata ai suoi carnefici. La testa le pendeva da un lato, come un orripilante pendaglio intri-so di sangue. Dal becco socchiuso colavano pesanti gocce rosse. E dal petto le usciva la punta della canna. Un nugolo di mosche metallizzate le ronzava intorno e si affollava sugli occhi, sul sangue.

Un brivido mi si è arrampicato sulla schiena.

Siamo andati avanti e dopo aver superato la spina dorsale della collina abbiamo cominciato a scendere.

Dove diavolo erano andati gli altri? Perché erano scesi da quella parte?

Abbiamo fatto un'altra ventina di metri e lo abbiamo scoperto.

La collina non era tonda. Dietro perdeva la sua inappuntabile perfezione. Si allungava in una specie di gobba che degradava torcendosi dolcemente fino a unirsi alla pianura. In mezzo c'era una valle stretta, chiusa, invisibile se non da là sopra o da un aeroplano.

Con la creta sarebbe facilissimo modellare quella collina. Basta fare una palla. Tagliarla in due. Una metà poggiarla sul tavolo. Con l'altra metà fare una salsiccia, una specie di verme ciccione, da appiccicare dietro, lasciando al centro una piccola conca.

La cosa strana era che dentro quella conca nascosta erano cresciuti degli alberi. Al riparo dal vento e dal sole ci stava un boschetto di querce. E una casa abbandonata, con il tetto tutto sfondato, le tegole marroni e i travi scuri, spuntava tra le fronde verdi.

Siamo scesi giù per il viottolo e siamo entrati nella valletta.

Era l'ultima cosa che mi sarei aspettato. Alberi. Ombra. Fresco.

Non si sentivano più i grilli, ma il cinguettio degli uccelli. C'erano ciclamini viola. E tappeti d'edera verde. E un buon odore. Veniva voglia di trovarsi un posticino accanto a un tronco e farsi un sonno.

Salvatore è apparso all'improvviso, come un fantasma. "Hai visto? Forte!

"Fortissimo!" ho risposto guardandomi in giro. Forse c'era un ruscello dove bere.

"Perché ci hai messo tanto? Pensavo che eri tornato giù.

"No, è che mia sorella aveva male a un piede, così... Ho sete. Devo bere.

Salvatore ha tirato fuori dallo zaino una bottiglia. "Ne è rimasta poca".

Con Maria ce la siamo divisa da bravi fratelli.

Bastava appena a inumidirci la bocca.

"Chi ha vinto la gara?" Mi preoccupavo per la penitenza. Ero stanco morto.

Speravo che il Teschio, per una volta, me la potesse abbonare o spostare a un altro giorno.

"Il Teschio.

"E tu?

"Secondo. Poi Remo.

"Barbara?

"Ultima. Come al solito.

"La penitenza chi la deve fare?

"Il Teschio dice che la deve fare Barbara. Barbara però dice che la devi fare tu perché sei arrivato ultimo.

"E allora?

"Non lo so, me ne sono andato a fare un giro.

Are sens