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Non potevo tornare indietro. Mi avrebbero rotto le scatole fino al a morte. E

se mi buttavo di sotto? All'improvviso quei quattro metri che mi dividevano dalla stalla non sembravano più tanti.

Potevo dire agli altri che era impossibile arrivare alla finestra.

In certi momenti il cervello gioca brutti scherzi.

Circa dieci anni dopo mi è successo di andare a sciare sul Gran Sasso. Era il giorno sbagliato, nevicava, faceva un freddo polare, tirava un ventaccio che ghiacciava le orecchie e c'era la nebbia.

Avevo diciannove anni e a sciare c'ero stato una volta sola. Ero eccitatissi-mo e non mi importava niente se tutti dicevano che era pericoloso, io volevo sciare. Sono montato sulla seggiovia, imbacuccato come un eschimese, e so-no partito per le piste.

Il vento era così forte che il motore dell'impianto si spegneva automatica-mente e si riavviava solo quando le raffiche si attenuavano. Faceva dieci metri poi si bloccava per un quarto d'ora poi altri quaranta metri e venti minuti fermo. Così, all'infinito. Da impazzire. Per quel poco che riuscivo a vedere la seggiovia era vuota. Piano piano ho smesso di sentire le punte dei piedi, le orecchie, le dita delle mani. Cercavo di spazzarmi la neve di dosso, ma era fatica sprecata, cadeva silenziosa, leggera e incessante. A un certo punto ho cominciato ad assopirmi, a ragionare più lentamente, mi sono fatto forza e mi sono detto che se mi addormentavo sarei morto. Ho urlato, ho chiesto aiuto.

Mi ha risposto il vento. Ho guardato in basso. Ero proprio sopra una pista.

Appeso a una decina di metri dalla neve. Ho ripensato alla storia di quell'avia-tore che durante la guerra si era buttato dall'aereo in fiamme e non gli si era aperto il paracadute e non era morto, salvato dalla neve soffice. Dieci metri non erano tanti. Se mi buttavo bene, se non mi irrigidivo, non mi facevo niente, Il paracadutista non si era fatto niente. Una parte del cervello mi ripeteva ossessiva. «Buttati! Buttati! Buttati!» Ho sollevato la sbarra di sicurezza.

E ho cominciato a dondolarmi. Per fortuna in quel momento la seggiovia si è mossa e ho ripreso coscienza. Ho abbassato la sbarra. Era altissimo, come minimo mi spezzavo le gambe.

In quella casa provavo la stessa cosa. Volevo buttarmi di sotto. Poi mi sono ricordato di aver letto su un libro di Salvatore che le lucertole possono salire sui muri perché hanno una perfetta distribuzione del peso. Lo scaricano sulle zampe, sul ventre e sulla coda, gli uomini invece solo sui piedi ed è per questo che affondano nelle sabbie mobili.

Ecco, cosa dovevo fare.

Mi sono inginocchiato, mi sono steso e ho cominciato a strisciare. A ogni movimento che facevo cadevano calcinacci e mattonelle. Leggero, leggero come una lucertola, mi ripetevo. Sentivo le travi tremare. Ci ho messo cinque minuti buoni ma sono arrivato sano e salvo dall'altra parte.

Ho spinto la porta. Era l'ultima. In fondo c'era la finestra che dava sul cortile. Un lungo ramo s'insinuava fino alla casa. Era fatta. Anche qui il pavimento aveva ceduto, ma solo per metà. L'altra resisteva. Ho usato la vecchia tecni-ca, camminare appiccicato alle pareti. Sotto vedevo una stanza in penombra.

C'erano i resti di un fuoco, dei barattoli aperti di pelati e pacchi di pasta vuoti.

Qualcuno doveva essere stato li da non molto tempo.

Sono arrivato alla finestra senza intoppi. Ho guardato giù.

C'era un piccolo cortile recintato da una fascia di rovi e dietro il bosco che premeva. A terra c'erano un lavatoio di cemento crepato, il braccio arrugginito di una gru, mucchi di calcinacci coperti di edera, una bombola del gas e un materasso.

Il ramo su cui dovevo salire era vicino, a meno di un metro. Non abbastanza però, da poterci arrivare senza fare un salto. Era grosso e sinuoso come un anaconda. Si allungava per più di cinque metri. Mi avrebbe sostenuto. Arrivato in fondo avrei trovato il modo di scendere.

Sono montato in piedi sul davanzale, mi sono fatto il segno della croce e mi sono lanciato a braccia in avanti come un gibbone della foresta amazzonica.

Sono finito di pancia sul ramo, ho provato ad abbrancarlo, ma era grande. Ho usato le gambe ma non c'erano appigli. Ho cominciato a scivolare.

Cercavo di artigliarmi alla corteccia.

La salvezza era di fronte a me. Un ramo più piccolo stava li a qualche decina di centimetri.

Mi sono caricato e con uno scatto di reni l'ho afferrato con tutte e due le mani.

Era secco. Si è spezzato.

Sono atterrato di schiena. Sono rimasto immobile, a occhi chiusi, sicuro di essermi rotto l'osso del collo. Non sentivo dolore. Me ne stavo steso, pietrifi-cato, con il ramo tra le mani, cercando di capire perché non soffrivo. Forse ero diventato un paralitico che anche se gli spegni una sigaretta su un braccio e gli infili una forchetta in una coscia non sente niente.

Ho aperto gli occhi. Sono rimasto a fissare l'immenso ombrello verde della quercia che incombeva su di me. Lo sfavillio del sole tra le foglie. Dovevo cercare di sollevare la testa. L'ho sollevata.

Ho buttato quel ramo cretino. Ho toccato con le mani la terra. E ho scoperto di essere su una cosa soffice. Il materasso.

Mi sono rivisto che precipitavo, che volavo e mi schiantavo senza farmi niente. C'era stato un rumore basso e cupo nel momento esatto in cui ero atterrato. Lo avevo sentito, potevo giurarci.

Ho mosso i piedi e ho scoperto che sotto le foglie, i rametti e la terra c'era un ondulato verde, una tettoia di plastica trasparente. Era stata ricoperta co-me per nasconderla. E quel vecchio materasso ci era stato poggiato sopra.

Era stato l'ondulato a salvarmi. Si era piegato assorbendo la caduta.

Quindi, sotto, doveva essere vuoto.

Poteva esserci un nascondiglio segreto o un cunicolo che portava in una caverna piena d'oro e pietre preziose.

Mi sono messo carponi e ho spinto in avanti la lastra.

Pesava, ma, piano piano, l'ho spostata un poco. Si è sprigionato un tanfo terribile di merda.

Ho vacillato, mi sono messo una mano sulla bocca e ho spinto ancora.

Ero cascato sopra un buco.

Era buio. Ma più spostavo la lastra e più rischiarava. Le pareti erano fatte di terra, scavate a colpi di vanga. Le radici della quercia erano state tagliate.

Sono riuscito a spingerla ancora un po'. Il buco era largo un paio di metri e profondo due metri, due metri e mezzo.

Era vuoto.

No, c'era qualcosa.

Un mucchio di stracci appallottolati?

No...

Un animale? Un cane? No...

Cos'era?

Era senza peli...

bianco...

una gamba...

Una gamba!

Ho fatto un salto indietro e per poco non sono inciampato.

Are sens