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"Tocca a mio fratello.

E Salvatore ha detto: "Quattro contro due. Ha vinto Michele. Tocca a lui.

Arrivare al piano di sopra della casa non è stato semplice.

La scala non esisteva più. I gradini erano ridotti a un ammasso di blocchi di pietra. Riuscivo a salire aggrappandomi ai rami del fico. I rovi mi graffiavano le braccia e le gambe. Una spina mi aveva scorticato la guancia destra.

Di camminare sul parapetto, non se ne parlava.

Se franava finivo di sotto, in una selva di ortiche e rose selvatiche.

Era la penitenza che mi ero beccato per aver fatto l'eroe.

"Devi salire al primo piano. Entrare. Attraversare tutta la casa e dalla finestra in fondo saltare sull'albero e scendere.

Avevo temuto che il Teschio mi avrebbe costretto a mostrare il pesce o a infilarmi una mazza in culo e invece aveva scelto di farmi fare una cosa peri-colosa, dove al massimo mi potevo ferire.

Meglio.

Stringevo i denti e avanzavo senza lamentarmi.

Gli altri stavano seduti sotto una quercia a godersi lo spettacolo di Michele Amitrano che si scassava le corna.

Ogni tanto arrivava un consiglio. "Passa di là.

"Devi andare dritto. Lì è pieno di spine. "Mangiati una mora che ti fa bene.

Non li stavo a sentire.

Ero sul terrazzino. C'era uno spazio stretto tra i rovi e il muro. Mi ci sono infilato dentro e sono arrivato alla porta. Era chiusa con una catena ma il lucchetto, mangiato dalla ruggine, era aperto.

Ho spinto un battente e con un gemito ferroso la porta si è spalancata.

Un gran frullare di ali. Piume. Uno stormo di piccioni ha preso il volo ed è uscito attraverso un buco nel tetto.

"Com'è? Com'è dentro?" ho sentito che domandava il Teschio.

Non mi sono dato pena di rispondergli. Sono entrato, attento a dove mettevo i piedi.

Ero in una stanza grande. Molte tegole erano cadute e un trave penzolava al centro. In un angolo c'era un camino, con una cappa a forma di piramide annerita dal fumo. In un altro angolo erano ammassati dei mobili. Una vecchia cucina rovesciata e arrugginita. Bottiglie. Cocci. Tegole. Una rete sfonda-ta. Tutto era coperto di merda di piccioni. E c'era un odore forte, un tanfo acre che ti si ficcava in fondo al naso e alla gola. Sopra il pavimento di grani-

glia era cresciuta una selva di piante ed erbacce selvatiche. In fondo alla stanza c'era una porta dipinta di rosso, chiusa, che di sicuro dava sulle altre stanze della casa.

Dovevo passare di lì.

Ho poggiato un piede, sotto le suole le assi scricchiolavano e il pavimento ondeggiava. A quel tempo pesavo sui trentacinque chili. Più o meno come una tanica d'acqua. Mi sono chiesto se una tanica d'acqua, messa al centro di quella stanza, sfondava il pavimento. Meglio non provarci.

Per arrivare alla porta successiva era più prudente camminare raso ai muri.

Trattenendo il respiro, in punta di piedi come una ballerina, ho seguito il pe-rimetro della camera. Se il pavimento si sfondava finivo nella stalla, dopo un volo di almeno quattro metri. Roba da spaccarsi le ossa.

Ma non è accaduto.

Nella stanza dopo, grande più o meno come la cucina, il pavimento mancava del tutto. Ai lati era crollato e ora solo una specie di ponte univa la mia porta con quella dall'altra parte. Dei sei travi che reggevano il pavimento erano rimasti sani solo i due al centro. Gli altri erano tronconi mangiati dai tarli.

Non potevo seguire i muri. Mi toccava attraversare quel ponte. I travi che lo sostenevano non dovevano essere in condizioni migliori degli altri.

Mi sono paralizzato sotto lo stipite della porta.

Non potevo tornare indietro. Mi avrebbero rotto le scatole fino al a morte. E

se mi buttavo di sotto? All'improvviso quei quattro metri che mi dividevano dalla stalla non sembravano più tanti.

Potevo dire agli altri che era impossibile arrivare alla finestra.

In certi momenti il cervello gioca brutti scherzi.

Circa dieci anni dopo mi è successo di andare a sciare sul Gran Sasso. Era il giorno sbagliato, nevicava, faceva un freddo polare, tirava un ventaccio che ghiacciava le orecchie e c'era la nebbia.

Avevo diciannove anni e a sciare c'ero stato una volta sola. Ero eccitatissi-mo e non mi importava niente se tutti dicevano che era pericoloso, io volevo sciare. Sono montato sulla seggiovia, imbacuccato come un eschimese, e so-no partito per le piste.

Il vento era così forte che il motore dell'impianto si spegneva automatica-mente e si riavviava solo quando le raffiche si attenuavano. Faceva dieci metri poi si bloccava per un quarto d'ora poi altri quaranta metri e venti minuti fermo. Così, all'infinito. Da impazzire. Per quel poco che riuscivo a vedere la seggiovia era vuota. Piano piano ho smesso di sentire le punte dei piedi, le orecchie, le dita delle mani. Cercavo di spazzarmi la neve di dosso, ma era fatica sprecata, cadeva silenziosa, leggera e incessante. A un certo punto ho cominciato ad assopirmi, a ragionare più lentamente, mi sono fatto forza e mi sono detto che se mi addormentavo sarei morto. Ho urlato, ho chiesto aiuto.

Mi ha risposto il vento. Ho guardato in basso. Ero proprio sopra una pista.

Appeso a una decina di metri dalla neve. Ho ripensato alla storia di quell'avia-tore che durante la guerra si era buttato dall'aereo in fiamme e non gli si era aperto il paracadute e non era morto, salvato dalla neve soffice. Dieci metri non erano tanti. Se mi buttavo bene, se non mi irrigidivo, non mi facevo niente, Il paracadutista non si era fatto niente. Una parte del cervello mi ripeteva ossessiva. «Buttati! Buttati! Buttati!» Ho sollevato la sbarra di sicurezza.

E ho cominciato a dondolarmi. Per fortuna in quel momento la seggiovia si è mossa e ho ripreso coscienza. Ho abbassato la sbarra. Era altissimo, come minimo mi spezzavo le gambe.

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