Dante Alighieri - La Divina Commedia ____________________________________________________
Di penter sì mi punse ivi l'ortica, che di tutte altre cose qual mi torse più nel suo amor, più mi si fé nemica.
Tanta riconoscenza il cor mi morse, ch'io caddi vinto; e quale allora femmi, salsi colei che la cagion mi porse.
Poi, quando il cor virtù di fuor rendemmi, la donna ch'io avea trovata sola
sopra me vidi, e dicea: «Tiemmi, tiemmi!».
Tratto m'avea nel fiume infin la gola, e tirandosi me dietro sen giva
sovresso l'acqua lieve come scola.
Quando fui presso a la beata riva,
'Asperges me' sì dolcemente udissi, che nol so rimembrar, non ch'io lo scriva.
La bella donna ne le braccia aprissi; abbracciommi la testa e mi sommerse ove convenne ch'io l'acqua inghiottissi.
Indi mi tolse, e bagnato m'offerse dentro a la danza de le quattro belle; e ciascuna del braccio mi coperse.
«Noi siam qui ninfe e nel ciel siamo stelle; pria che Beatrice discendesse al mondo, fummo ordinate a lei per sue ancelle.
Merrenti a li occhi suoi; ma nel giocondo lume ch'è dentro aguzzeranno i tuoi le tre di là, che miran più profondo».
Così cantando cominciaro; e poi
al petto del grifon seco menarmi, ove Beatrice stava volta a noi.
Disser: «Fa che le viste non risparmi; posto t'avem dinanzi a li smeraldi ond' Amor già ti trasse le sue armi».
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Mille disiri più che fiamma caldi strinsermi li occhi a li occhi rilucenti, che pur sopra 'l grifone stavan saldi.
Come in lo specchio il sol, non altrimenti la doppia fiera dentro vi raggiava, or con altri, or con altri reggimenti.
Pensa, lettor, s'io mi maravigliava, quando vedea la cosa in sé star queta, e ne l'idolo suo si trasmutava.
Mentre che piena di stupore e lieta l'anima mia gustava di quel cibo
che, saziando di sé, di sé asseta, sé dimostrando di più alto tribo
ne li atti, l'altre tre si fero avanti, danzando al loro angelico caribo.
«Volgi, Beatrice, volgi li occhi santi», era la sua canzone, «al tuo fedele che, per vederti, ha mossi passi tanti!
Per grazia fa noi grazia che disvele a lui la bocca tua, sì che discerna la seconda bellezza che tu cele».
O isplendor di viva luce etterna, chi palido si fece sotto l'ombra
sì di Parnaso, o bevve in sua cisterna, che non paresse aver la mente ingombra, tentando a render te qual tu paresti là dove armonizzando il ciel t'adombra, quando ne l'aere aperto ti solvesti?
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CANTO XXXII
[Canto XXXII, dove si tratta come Beatrice comandò a l'auttore che scrivesse li miracoli che vide in quel luogo, e come elli con le donne seguio il carro, e l'aguglia percosse il carro, e una volpe sen fuggio, e de la puttana e del gigante.]
Tant' eran li occhi miei fissi e attenti a disbramarsi la decenne sete,
che li altri sensi m'eran tutti spenti.
Ed essi quinci e quindi avien parete di non caler - così lo santo riso a sé traéli con l'antica rete! -; quando per forza mi fu vòlto il viso ver' la sinistra mia da quelle dee, perch' io udi' da loro un «Troppo fiso!»; e la disposizion ch'a veder èe
ne li occhi pur testé dal sol percossi, sanza la vista alquanto esser mi fée.
Ma poi ch'al poco il viso riformossi (e dico 'al poco' per rispetto al molto sensibile onde a forza mi rimossi), vidi 'n sul braccio destro esser rivolto lo glorïoso essercito, e tornarsi col sole e con le sette fiamme al volto.
Come sotto li scudi per salvarsi
volgesi schiera, e sé gira col segno, prima che possa tutta in sé mutarsi; quella milizia del celeste regno
che procedeva, tutta trapassonne