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Add to favorite Se questo è un uomo – Primo Levi

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La porta si è aperta. I tre dottori hanno deciso che sei candidati passeranno in mattinata. Il settimo no. Il settimo sono io, ho il numero di matricola piú elevato, mi tocca ritornare al lavoro. Solo nel pomeriggio viene Alex a prelevarmi; che disdetta, non potrò neppure comunicare cogli altri per sapere «che domande fanno».

Questa volta ci siamo proprio. Per le scale, Alex mi guarda torvo, si sente in qualche modo responsabile del mio aspetto miserevole. Mi vuol male perché sono italiano, perché sono ebreo e perché, fra tutti, sono quello che piú si scosta dal suo caporalesco ideale virile. Per analogia, pur senza capirne nulla, e di questa sua incompetenza essendo fiero, ostenta una profonda sfiducia nelle mie probabilità per l’esame.

Siamo entrati. C’è solo il Doktor Pannwitz, Alex, col berretto in mano, gli parla a mezza voce: – ...un italiano, in Lager da tre mesi soltanto, già mezzo kaputt... ...Er sagt er ist Chemiker... – ma lui Alex sembra su questo faccia le sue riserve.

Alex viene brevemente congedato e relegato da parte, ed io mi sento come Edipo davanti alla Sfinge. Le mie idee sono chiare, e mi rendo conto anche in questo momento che la posta in gioco è grossa; eppure provo un folle impulso a scomparire, a sottrarmi alla prova.

Pannwitz è alto, magro, biondo; ha gli occhi, i capelli e il naso come tutti i tedeschi devono averli, e siede for-midabilmente dietro una complicata scrivania. Io, Häf-Letteratura italiana Einaudi 110

Primo Levi - Se questo è un uomo tling 174 517, sto in piedi nel suo studio che è un vero studio, lucido pulito e ordinato, e mi pare che lascerei una macchia sporca dovunque dovessi toccare.

Quando ebbe finito di scrivere, alzò gli occhi e mi guardò.

Da quel giorno, io ho pensato al Doktor Pannwitz molte volte e in molti modi. Mi sono domandato quale fosse il suo intimo funzionamento di uomo; come riem-pisse il suo tempo, all’infuori della Polimerizzazione e della coscienza indogermanica; soprattutto, quando io sono stato di nuovo un uomo libero, ho desiderato di in-contrarlo ancora, e non già per vendetta, ma solo per una mia curiosità dell’anima umana.

Perché quello sguardo non corse fra due uomini; e se io sapessi spiegare a fondo la natura di quello sguardo, scambiato come attraverso la parete di vetro di un acquario tra due esseri che abitano mezzi diversi, avrei anche spiegato l’essenza della grande follia della terza Germania.

Quello che tutti noi dei tedeschi pensavamo e diceva-mo si percepí in quel momento in modo immediato. Il cervello che sovrintendeva a quegli occhi azzurri e a quelle mani coltivate diceva: «Questo qualcosa davanti a me appartiene a un genere che è ovviamente opportuno sopprimere. Nel caso particolare, occorre prima accer-tarsi che non contenga qualche elemento utilizzabile». E

nel mio capo, come semi in una zucca vuota: «Gli occhi azzurri e i capelli biondi sono essenzialmente malvagi.

Nessuna comunicazione possibile. Sono specializzato in chimica mineraria. Sono specializzato in sintesi organi-che. Sono specializzato...»

Ed incominciò l’interrogatorio, mentre nel suo angolo sbadigliava e digrignava Alex, terzo esemplare zoologico.

– Wo sind Sie geboren? – mi dà del Sie, del lei: il Doktor Ingenieur Pannwitz non ha il senso dell’umori-smo. Che sia maledetto, non fa il minimo sforzo per parlare un tedesco un po’ comprensibile.

Letteratura italiana Einaudi 111

Primo Levi - Se questo è un uomo

– Mi sono laureato a Torino nel 1941, summa cum laude, – e, mentre lo dico, ho la precisa sensazione di non esser creduto, a dire il vero non ci credo io stesso, basta guardare le mie mani sporche e piagate, i pantaloni da forzato incrostati di fango. Eppure sono proprio io, il laureato di Torino, anzi, particolarmente in questo momento è impossibile dubitare della mia identità con lui, infatti il serbatoio dei ricordi di chimica organica, pur dopo la lunga inerzia, risponde alla richiesta con inaspettata docilità; e ancora, questa ebrietà lucida, questa esaltazione che mi sento calda per le vene, come la riconosco, è la febbre degli esami, la mia febbre dei miei esami, quella spontanea mobilitazione di tutte le facoltà logiche e di tutte le nozioni che i miei compagni di scuola tanto mi invidiavano.

L’esame sta andando bene. A mano a mano che me ne rendo conto, mi pare di crescere di statura. Ora mi chiede su quale argomento ho fatto la tesi di laurea. De-vo fare uno sforzo violento per suscitare queste sequen-ze di ricordi cosí profondamente lontane: è come se cer-cassi di ricordare gli avvenimenti di una incarnazione anteriore.

Qualcosa mi protegge. Le mie povere vecchie Misure di costanti dielettriche interessano particolarmente questo ariano biondo dalla esistenza sicura: mi chiede se so l’inglese, mi mostra il testo del Gattermann, e anche questo è assurdo e inverosimile, che quaggiú, dall’altra parte del filo spinato, esista un Gattermann in tutto identico a quello su cui studiavo in Italia, in quarto an-no, a casa mia.

Adesso è finito: l’eccitazione che mi ha sostenuto lungo tutta la prova cede d’un tratto ed io contemplo istu-pidito e atono la mano di pelle bionda che, in segni incomprensibili, scrive il mio destino sulla pagina bianca.

– Los, ab! – Alex rientra in scena, io sono di nuovo sotto la sua giurisdizione. Saluta Pannwitz sbattendo i Letteratura italiana Einaudi 112

Primo Levi - Se questo è un uomo tacchi, e ne ottiene in cambio un lievissimo cenno delle palpebre. Io brancolo per un attimo nella ricerca di una formula di congedo appropriata: invano, in tedesco so dire mangiare, lavorare, rubare, morire; so anche dire acido solforico, pressione atmosferica e generatore di onde corte, ma non so proprio come si può salutare una persona di riguardo.

Eccoci di nuovo per le scale. Alex vola gli scalini: ha le scarpe di cuoio perché non è ebreo, è leggero sui piedi come i diavoli di Malebolge. Si volge dal basso a guar-darmi torvo, mentre io discendo impacciato e rumoroso nei miei zoccoli spaiati ed enormi, aggrappandomi alla ringhiera come un vecchio.

Pare che sia andata bene, ma sarebbe insensato farci conto. Conosco già abbastanza il Lager per sapere che non si devono mai fare previsioni, specie se ottimistiche.

Quello che è certo, è che ho passato una giornata senza lavorare, e quindi stanotte avrò un po’ meno fame, e questo è un vantaggio concreto e acquisito.

Per rientrare alla Bude, bisogna attraversare uno spiazzo ingombro di travi e di tralicci metallici accatastati. Il cavo d’acciaio di un argano taglia la strada, Alex lo afferra per scavalcarlo, Donnerwetter, ecco si guarda la mano nera di grasso viscido. Frattanto io l’ho raggiunto: senza odio e senza scherno, Alex strofina la mano sulla mia spalla, il palmo e il dorso, per nettarla, e sarebbe assai stupito, l’innocente bruto Alex, se qualcuno gli dicesse che alla stregua di questo suo atto io oggi lo giu-dico, lui e Pannwitz e gli innumerevoli che furono come lui, grandi e piccoli, in Auschwitz e ovunque.

Letteratura italiana Einaudi 113

Primo Levi - Se questo è un uomo IL CANTO DI ULISSE

Eravamo sei a raschiare e pulire l’interno di una ci-sterna interrata; la luce del giorno ci giungeva soltanto attraverso il piccolo portello d’ingresso. Era un lavoro di lusso, perché nessuno ci controllava; però faceva freddo e umido. La polvere di ruggine ci bruciava sotto le palpebre e ci impastava la gola e la bocca con un sapore quasi di sangue.

Oscillò la scaletta di corda che pendeva dal portello: qualcuno veniva. Deutsch spense la sigaretta, Goldner svegliò Sivadjan; tutti ci rimettemmo a raschiare vigorosamente la parete sonora di lamiera.

Non era il Vorarbeiter, era solo Jean, il Pikolo del nostro Kommando. Jean era uno studente alsaziano; benché avesse già ventiquattr’anni, era il piú giovane Häftling del Kommando Chimico. Era perciò toccata a lui la carica di Pikolo, vale a dire di fattorino-scritturale, addetto alla pulizia della baracca, alle consegne degli attrezzi, alla lavatura delle gamelle, alla contabilità delle ore di lavoro del Kommando.

Jean parlava correntemente francese e tedesco: appena si riconobbero le sue scarpe sul gradino piú alto della scaletta, tutti smisero di raschiare:

– Also, Pikolo, was gibt es Neues?

– Qu’est-ce qu’il y a comme soupe aujourd’hui?

... di che umore era il Kapo? E la faccenda delle venticinque frustate a Stern? Che tempo faceva fuori? Aveva letto il giornale? Che odore c’era alla cucina civile? Che ora era?

Jean era molto benvoluto al Kommando. Bisogna sapere che la carica di Pikolo costituisce un gradino già assai elevato nella gerarchia delle Prominenze: il Pikolo (che di solito non ha piú di diciassette anni) non lavora manualmente, ha mano libera sui fondi della marmitta Letteratura italiana Einaudi 114

Primo Levi - Se questo è un uomo del rancio e può stare tutto il giorno vicino alla stufa:

«perciò» ha diritto a mezza razione supplementare, ed ha buone probabilità di divenire amico e confidente del Kapo, dal quale riceve ufficialmente gli abiti e le scarpe smesse. Ora, Jean era un Pikolo eccezionale. Era scaltro e fisicamente robusto, e insieme mite e amichevole: pur conducendo con tenacia e coraggio la sua segreta lotta individuale contro il campo e contro la morte, non tra-scurava di mantenere rapporti umani coi compagni me-no privilegiati; d’altra parte, era stato tanto abile e per-severante da affermarsi nella fiducia di Alex, il Kapo.

Alex aveva mantenuto tutte le sue promesse. Si era dimostrato un bestione violento e infido, corazzato di solida e compatta ignoranza e stupidità, eccezion fatta per il suo fiuto e la sua tecnica di aguzzino esperto e consumato. Non perdeva occasione di proclamarsi fiero del suo sangue puro e del suo triangolo verde, e ostentava un al-tero disprezzo per i suoi chimici cenciosi e affamati: –

Ihr Doktoren! Ihr Intelligenten! – sghignazzava ogni giorno vedendoli accalcarsi colle gamelle tese alla distribuzione del rancio. Nei riguardi dei Meister civili era estremamente arrendevole e servile, e con le SS manteneva vincoli di cordiale amicizia.

Are sens

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