Da allora il nostro vitto migliorò. Oltre alle patate bollite e alla zuppa di patate, offrimmo ai nostri malati frit-telle di patate, su ricetta di Arthur: si raschiano patate crude con altre bollite e disfatte; la miscela si arrostisce su di una lamiera rovente. Avevano sapore di fuliggine.
Letteratura italiana Einaudi 180
Primo Levi - Se questo è un uomo Ma non ne poté godere Sertelet, il cui male progredi-va. Oltre a parlare con timbro sempre piú nasale, quel giorno non riuscí piú inghiottire a dovere alcun alimen-to: qualcosa gli si era guastato in gola, ogni boccone mi-nacciava di soffocarlo.
Andai a cercare un medico ungherese rimasto come malato nella baracca di fronte. Come udí parlare di difterite, fece tre passi indietro e mi ingiunse di uscire.
Per pure ragioni di propaganda, feci a tutti instillazio-ni nasali di olio canforato. Assicurai Sertelet che ne avrebbe tratto giovamento; io stesso cercavo di convin-cermene.
24 gennaio.
Libertà. La breccia nel filo spinato ce ne dava l’immagine concreta. A porvi mente con attenzione voleva dire non piú tedeschi, non piú selezioni, non lavoro, non botte, non appelli, e forse, piú tardi, il ritorno.
Ma ci voleva sforzo per convincersene e nessuno aveva tempo di goderne. Intorno tutto era distruzione e morte.
Il mucchio di cadaveri, di fronte alla nostra finestra, rovinava ormai fuori della fossa. Nonostante le patate, la debolezza di tutti era estrema: nel campo nessun ammalato guariva, molti invece si ammalavano di polmonite e diarrea; quelli che non erano stati grado di muoversi, o non avevano avuto l’energia di farlo, giacevano torpidi nelle cuccette, rigidi dal freddo, e nessuno si accorgeva di quando morivano.
Gli altri erano tutti spaventosamente stanchi: dopo mesi e anni di Lager, non sono le patate che possono ri-mettere in forza un uomo. Quando, a cottura ultimata, Charles ed io avevamo trascinato i venticinque litri di zuppa quotidiana dal lavatoio alla camera, dovevamo poi gettarci ansanti sulla cuccetta, mentre Arthur, diligente e domestico, faceva la ripartizione, curando che Letteratura italiana Einaudi 181
Primo Levi - Se questo è un uomo avanzassero le tre razioni di «rabiot pour les travail-leurs» e un po’ di fondo «pour les italiens d’à côté».
Nella seconda camera di Infettivi, anche essa attigua alla nostra e abitata in maggioranza da tubercolotici, la situazione era ben diversa. Tutti quelli che lo avevano potuto, erano andati a stabilirsi in altre baracche. I compagni piú gravi e piú deboli si spegnevano a uno a uno in solitudine.
Vi ero entrato un mattino per cercare in prestito un ago. Un malato rantolava in una delle cuccette superiori.
Mi udí, si sollevò a sedere, poi si spenzolò a capofitto oltre la sponda, verso me, col busto e le braccia rigidi e gli occhi bianchi. Quello della cuccetta di sotto, automaticamente, tese in alto le braccia per sostenere quel corpo, si accorse allora che era morto. Cedette lentamente sotto il peso, l’altro scivolò a terra e vi rimase. Nessuno sapeva il suo nome.
Ma nella baracca 14 era successo qualcosa di nuovo.
Vi erano ricoverati gli operati, alcuni dei quali in discrete condizioni. Essi organizzarono una spedizione al campo degli inglesi prigionieri di guerra, che si presu-meva fosse stato evacuato. Fu una fruttuosa impresa. Ri-tornarono vestiti in kaki, con un carretto pieno di mera-viglie mai viste: margarina, polveri per budino, lardo, farina di soia, acquavite.
A sera, nella baracca 14 si cantava.
Nessuno di noi si sentiva la forza di fare i due chilometri di strada al campo inglese e ritornare col carico.
Ma, indirettamente, la fortunata spedizione ritornò di vantaggio a molti. La ineguale ripartizione dei beni provocò un rifiorire di industria e di commercio. Nella nostra cameretta dall’atmosfera mortale, nacque una fabbrica di candele con stoppino imbevuto di acido borico, colate in forme di cartone. I ricchi della baracca 14 as-sorbivano l’intera nostra produzione, pagandoci in lardo e farina.
Letteratura italiana Einaudi 182
Primo Levi - Se questo è un uomo Io stesso avevo trovato il blocco di cera vergine nell’Elektromagazin; ricordo l’espressione di disappunto di coloro che me lo videro portar via, e il dialogo che ne seguí:
– Che te ne vuoi fare?
Non era il caso di svelare un segreto di fabbricazione; sentii me stesso rispondere con le parole che avevo spesso udite dai vecchi del campo, e che contengono il loro vanto preferito: di essere «buoni prigionieri», gente adatta, che se la sa sempre cavare; – Ich verstehe ver-schiedene Sachen... – (Me ne intendo di varie cose...) 25 gennaio.
Fu la volta di Sómogyi. Era un chimico ungherese sulla cinquantina, magro, alto e taciturno.
Come l’olandese, era convalescente di tifo e di scarlattina; ma sopravvenne qualcosa di nuovo. Fu preso da una febbre intensa. Da forse cinque giorni non aveva detto parola: aprí bocca quel giorno e disse con voce ferma:
– Ho una razione di pane sotto il saccone. Dividetela voi tre. Io non mangerò piú.
Non trovammo nulla da dire, ma per allora non toccam-mo il pane. Gli si era gonfiata una metà del viso. Finché conservò coscienza, rimase chiuso in un silenzio aspro.
Ma a sera, e per tutta la notte, e per due giorni senza interruzione, il silenzio fu sciolto dal delirio. Seguendo un ultimo interminabile sogno di remissione e di schiavitú, prese a mormorare «Jawohl» ad ogni emissione di respiro; regolare e costante come una macchina, «Jawohl» ad ogni abbassarsi della povera rastrelliera delle costole, migliaia di volte, tanto da far venire voglia di scuoterlo, di soffocarlo, o che almeno cambiasse parola.
Non ho mai capito come allora quanto sia laboriosa la morte di un uomo.
Fuori ancora il grande silenzio. Il numero dei corvi Letteratura italiana Einaudi 183
Primo Levi - Se questo è un uomo era molto aumentato, e tutti sapevano perché. Solo a lunghi intervalli si risvegliava il dialogo dell’artiglieria.
Tutti si dicevano a vicenda che i russi presto, subito, sarebbero arrivati; tutti lo proclamavano, tutti ne erano certi, ma nessuno riusciva a farsene serenamente capace.
Perché nei Lager si perde l’abitudine di sperare, e anche la fiducia nella propria ragione. In Lager pensare è inutile, perché gli eventi si svolgono per lo piú in modo imprevedibile; ed è dannoso, perché mantiene viva una sensibilità che è fonte di dolore, e che qualche provvida legge naturale ottunde quando le sofferenze sorpassano un certo limite.
Come della gioia, della paura, del dolore medesimo, cosí anche dell’attesa ci si stanca. Arrivati al 25 gennaio, rotti da otto giorni i rapporti con quel feroce mondo che pure era un mondo, i piú fra noi erano troppo esausti perfino per attendere.
A sera, intorno alla stufa, ancora una volta Charles, Arthur ed io ci sentimmo ridiventare uomini. Potevamo parlare di tutto. Mi appassionava il discorso di Arthur sul modo come si passano le domeniche a Provenchères nei Vosgi, e Charles piangeva quasi quando io gli raccontai dell’armistizio in Italia, dell’inizio torbido e di-sperato della resistenza partigiana, dell’uomo che ci aveva traditi e della nostra cattura sulle montagne.
Nel buio, dietro e sopra di noi, gli otto malati non perdevano una sillaba, anche quelli che non capivano il francese. Soltanto Sómogyi si accaniva a confermare alla morte la sua dedizione.
26 gennaio.
Noi giacevamo in un mondo di morti e di larve. L’ultima traccia di civiltà era sparita intorno a noi e dentro di noi. L’opera di bestializzazione, intrapre-sa dai tedeschi trionfanti, era stata portata a compimen-to dai tedeschi disfatti.
Letteratura italiana Einaudi 184
Primo Levi - Se questo è un uomo È uomo chi uccide, è uomo chi fa o subisce ingiustizia; non è uomo chi, perso ogni ritegno, divide il letto con un cadavere. Chi ha atteso che il suo vicino finisse di morire per togliergli un quarto di pane, è, pur senza sua colpa, piú lontano dal modello dell’uomo pensante, che il piú rozzo pigmeo e il sadico piú atroce.