Soltanto un giorno prima un simile avvenimento non sarebbe stato concepibile. La legge del Lager diceva:
«mangia il tuo pane, e, se puoi, quello del tuo vicino», e non lasciava posto per la gratitudine. Voleva ben dire che il Lager era morto.
Fu quello il primo gesto umano che avvenne fra noi.
Credo che si potrebbe fissare a quel momento l’inizio del processo per cui, noi che non siamo morti, da Häftlinge siamo lentamente ridiventati uomini.
Arthur si era ripreso abbastanza bene, ma da allora evitò sempre di esporsi al freddo; si assunse la manutenzione della stufa, la cottura delle patate, la pulizia della camera e l’assistenza ai malati. Charles ed io ci dividem-mo i vari servizi all’esterno. C’era ancora un’ora di luce: una sortita ci fruttò mezzo litro di spirito e un barattolo di lievito di birra, buttato nella neve da chissà chi; facemmo una distribuzione di patate bollite e di un cucchiaio a testa di lievito. Pensavo vagamente che potesse giovare contro l’avitaminosi.
Venne l’oscurità; di tutto il campo la nostra era l’unica camera munita di stufa, del che eravamo assai fieri.
Molti malati di altre sezioni si accalcavano alla porta, ma la statura imponente di Charles li teneva a bada. Nessuno, né noi né loro, pensava che la promiscuità inevitabi-le coi nostri malati rendeva pericolosissimo il soggiorno nella nostra camera, e che ammalarsi di difterite in quelle condizioni era piú sicuramente mortale che saltare da un terzo piano.
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Primo Levi - Se questo è un uomo Io stesso, che ne ero conscio, non mi soffermavo troppo su questa idea: da troppo tempo mi ero abituato a pensare alla morte per malattia come ad un evento possibile, e in tal caso ineluttabile, e comunque al di fuori di ogni possibile nostro intervento. E neppure mi passava per il capo che avrei potuto stabilirmi in un’altra camera, in un’altra baracca con minor pericolo di contagio; qui era la stufa, opera nostra, che diffondeva un meraviglioso tepore; e qui avevo un letto; e infine, ormai, un legame ci univa, noi, gli undici malati della Infektionsabteilung.
Si sentiva di rado un fragore vicino e lontano di artiglieria, e a intervalli, un crepitio di fucili automatici.
Nell’oscurità rotta solo dal rosseggiare della brace, Charles, Arthur ed io sedevamo fumando sigarette di er-be aromatiche trovate in cucina, e parlando di molte co-se passate e future. In mezzo alla sterminata pianura piena di gelo e di guerra, nella cameretta buia pullulante di germi, ci sentivamo in pace con noi e col mondo. Eravamo rotti di fatica, ma ci pareva, dopo tanto tempo, di avere finalmente fatto qualcosa di utile; forse come Dio dopo il primo giorno della creazione.
20 gennaio. Giunse l’alba, ed ero io di turno per l’ac-censione della stufa. Oltre alla debolezza generale, le ar-ticolazioni dolenti mi ricordavano a ogni momento che la mia scarlattina era lungi dall’essere scomparsa. Il pensiero di dovermi tuffare nell’aria gelida in cerca di fuoco per le altre baracche mi faceva tremare di ribrezzo.
Mi rammentai delle pietrine; cosparsi di spirito un fo-glietto di carta, e con pazienza da una pietrina vi raschiai sopra un mucchietto di polvere nera, poi presi a raschiare piú forte la pietrina col coltello. Ed ecco: dopo qualche scintilla il mucchietto deflagrò, e dalla carta si levò la fiammella pallida dell’alcool.
Arthur discese entusiasta dal letto e fece scaldare tre Letteratura italiana Einaudi 172
Primo Levi - Se questo è un uomo patate a testa fra quelle bollite il giorno avanti; dopo di che, affamati e pieni di brividi, Charles ed io partimmo nuovamente in perlustrazione per il campo in sfacelo.
Ci restavano viveri (e cioè patate) per due giorni soltanto; per l’acqua eravamo ridotti a fondere la neve, operazione penosa per la mancanza di grandi recipienti, da cui si otteneva un liquido nerastro e torbido che era necessario filtrare.
Il campo era silenzioso. Altri spettri affamati si aggi-ravano come noi in esplorazione: barbe ormai lunghe, occhi incavati, membra scheletrite e giallastre fra i cenci.
Malfermi sulle gambe, entravano e uscivano dalle baracche deserte, asportandone gli oggetti piú vari: scuri, secchi, mestoli, chiodi; tutto poteva servire, e i piú lungimi-ranti già meditavano fruttuosi mercati con i polacchi della campagna circostante.
Nella cucina, due si accapigliavano per le ultime decine di patate putride. Si erano afferrati per gli stracci e si percuotevano con curiosi gesti lenti e incerti, vituperan-dosi in yiddisch fra le labbra gelate.
Nel cortile del magazzino stavano due grandi mucchi di cavoli e di rape (le grosse rape insipide, base della nostra alimentazione). Etano cosí gelati che non si potevano staccare se non col piccone. Charles ed io ci avvicen-dammo, tendendo tutte le nostre energie per ogni colpo, e ne estraemmo una cinquantina di chili. Vi fu anche altro: Charles trovò un pacco di sale e («une fameuse trouvaille!») un bidone d’acqua di forse mezzo ettolitro, allo stato di ghiaccio massiccio.
Caricammo ogni cosa su di un carrettino (servivano prima per distribuire il rancio alle baracche: ve n’era un gran numero abbandonati ovunque), e rientrammo spingendolo faticosamente sulla neve.
Per quel giorno ci accontentammo ancora di patate bollite e fette di rapa arrostite sulla stufa, ma per l’indomani Arthur ci promise importanti innovazioni.
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Primo Levi - Se questo è un uomo Nel pomeriggio andai all’ex ambulatorio, in cerca di qualcosa di utile. Ero stato preceduto: tutto era stato manomesso da saccheggiatori inesperti. Non piú una bottiglia intera, sul pavimento uno strato di stracci, ster-co e materiale di medicazione, un cadavere nudo e con-torto. Ma ecco qualcosa che ai miei predecessori era sfuggito: una batteria da autocarro. Toccai i poli col coltello: una piccola scintilla. Era carica.
A sera la nostra camera aveva la luce.
Stando a letto, vedevo dalla finestra un lungo tratto di strada: vi passava a ondate, già da tre giorni, la Wehrma-cht in fuga. Autoblinde, carri «tigre» mimetizzati in bianco, tedeschi a cavallo, tedeschi in bicicletta, tedeschi a piedi, armati e disarmati. Si udiva nella notte il fracasso dei cingoli molto prima che i carri fossero visibili.
Chiedeva Charles: – Ça roule encore?
– Ça roule toujours.
Sembrava non dovesse mai finire.
21 gennaio.
Invece finí. Coll’alba del 21 la pianura ci apparve deserta e rigida, bianca a perdita d’occhio sotto il volo dei corvi, mortalmente triste.
Avrei quasi preferito vedere ancora qualcosa in movimento. Anche i civili polacchi erano scomparsi, appiat-tati chissà dove. Pareva che perfino il vento si fosse arre-stato. Avrei desiderato una cosa soltanto: restare a letto sotto le coperte, abbandonarmi alla stanchezza totale di muscoli, nervi e volontà; aspettare che finisse, o che non finisse, era la stessa cosa, come un morto.
Ma già Charles aveva acceso la stufa, l’uomo Charles alacre, fiducioso e amico, e mi chiamava al lavoro:
– Vas-y, Primo, descends-toi de là-haut; il y a Jules à attraper par les oreilles...
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Primo Levi - Se questo è un uomo
«Jules» era il secchio della latrina, che ogni mattina bisognava afferrare per i manici, portare all’esterno e ro-vesciare nel pozzo nero: era questa la prima bisogna della giornata, e se si pensa che non era possibile lavarsi le mani, e che tre dei nostri erano ammalati di tifo, si comprende che non era un lavoro gradevole.
Dovevamo inaugurare i cavoli e le rape. Mentre io andavo a cercare legna, e Charles a raccogliere neve da sciogliere, Arthur mobilitò i malati che potevano star seduti, perché collaborassero nella mondatura. Towarowski, Sertelet, Alcalai e Schenck risposero all’appello.
Anche Sertelet era un contadino dei Vosgi, di vent’anni; pareva in buone condizioni, ma di giorno in giorno la sua voce andava assumendo un sinistro timbro nasale, a ricordarci che la differite raramente perdona.
Alcalai era un vetraio ebreo di Tolosa; era molto tranquillo e assennato, soffriva di risipola al viso.