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Add to favorite Se questo è un uomo – Primo Levi

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Primo Levi - Se questo è un uomo avanzassero le tre razioni di «rabiot pour les travail-leurs» e un po’ di fondo «pour les italiens d’à côté».

Nella seconda camera di Infettivi, anche essa attigua alla nostra e abitata in maggioranza da tubercolotici, la situazione era ben diversa. Tutti quelli che lo avevano potuto, erano andati a stabilirsi in altre baracche. I compagni piú gravi e piú deboli si spegnevano a uno a uno in solitudine.

Vi ero entrato un mattino per cercare in prestito un ago. Un malato rantolava in una delle cuccette superiori.

Mi udí, si sollevò a sedere, poi si spenzolò a capofitto oltre la sponda, verso me, col busto e le braccia rigidi e gli occhi bianchi. Quello della cuccetta di sotto, automaticamente, tese in alto le braccia per sostenere quel corpo, si accorse allora che era morto. Cedette lentamente sotto il peso, l’altro scivolò a terra e vi rimase. Nessuno sapeva il suo nome.

Ma nella baracca 14 era successo qualcosa di nuovo.

Vi erano ricoverati gli operati, alcuni dei quali in discrete condizioni. Essi organizzarono una spedizione al campo degli inglesi prigionieri di guerra, che si presu-meva fosse stato evacuato. Fu una fruttuosa impresa. Ri-tornarono vestiti in kaki, con un carretto pieno di mera-viglie mai viste: margarina, polveri per budino, lardo, farina di soia, acquavite.

A sera, nella baracca 14 si cantava.

Nessuno di noi si sentiva la forza di fare i due chilometri di strada al campo inglese e ritornare col carico.

Ma, indirettamente, la fortunata spedizione ritornò di vantaggio a molti. La ineguale ripartizione dei beni provocò un rifiorire di industria e di commercio. Nella nostra cameretta dall’atmosfera mortale, nacque una fabbrica di candele con stoppino imbevuto di acido borico, colate in forme di cartone. I ricchi della baracca 14 as-sorbivano l’intera nostra produzione, pagandoci in lardo e farina.

Letteratura italiana Einaudi 182

Primo Levi - Se questo è un uomo Io stesso avevo trovato il blocco di cera vergine nell’Elektromagazin; ricordo l’espressione di disappunto di coloro che me lo videro portar via, e il dialogo che ne seguí:

– Che te ne vuoi fare?

Non era il caso di svelare un segreto di fabbricazione; sentii me stesso rispondere con le parole che avevo spesso udite dai vecchi del campo, e che contengono il loro vanto preferito: di essere «buoni prigionieri», gente adatta, che se la sa sempre cavare; – Ich verstehe ver-schiedene Sachen... – (Me ne intendo di varie cose...) 25 gennaio.

Fu la volta di Sómogyi. Era un chimico ungherese sulla cinquantina, magro, alto e taciturno.

Come l’olandese, era convalescente di tifo e di scarlattina; ma sopravvenne qualcosa di nuovo. Fu preso da una febbre intensa. Da forse cinque giorni non aveva detto parola: aprí bocca quel giorno e disse con voce ferma:

– Ho una razione di pane sotto il saccone. Dividetela voi tre. Io non mangerò piú.

Non trovammo nulla da dire, ma per allora non toccam-mo il pane. Gli si era gonfiata una metà del viso. Finché conservò coscienza, rimase chiuso in un silenzio aspro.

Ma a sera, e per tutta la notte, e per due giorni senza interruzione, il silenzio fu sciolto dal delirio. Seguendo un ultimo interminabile sogno di remissione e di schiavitú, prese a mormorare «Jawohl» ad ogni emissione di respiro; regolare e costante come una macchina, «Jawohl» ad ogni abbassarsi della povera rastrelliera delle costole, migliaia di volte, tanto da far venire voglia di scuoterlo, di soffocarlo, o che almeno cambiasse parola.

Non ho mai capito come allora quanto sia laboriosa la morte di un uomo.

Fuori ancora il grande silenzio. Il numero dei corvi Letteratura italiana Einaudi 183

Primo Levi - Se questo è un uomo era molto aumentato, e tutti sapevano perché. Solo a lunghi intervalli si risvegliava il dialogo dell’artiglieria.

Tutti si dicevano a vicenda che i russi presto, subito, sarebbero arrivati; tutti lo proclamavano, tutti ne erano certi, ma nessuno riusciva a farsene serenamente capace.

Perché nei Lager si perde l’abitudine di sperare, e anche la fiducia nella propria ragione. In Lager pensare è inutile, perché gli eventi si svolgono per lo piú in modo imprevedibile; ed è dannoso, perché mantiene viva una sensibilità che è fonte di dolore, e che qualche provvida legge naturale ottunde quando le sofferenze sorpassano un certo limite.

Come della gioia, della paura, del dolore medesimo, cosí anche dell’attesa ci si stanca. Arrivati al 25 gennaio, rotti da otto giorni i rapporti con quel feroce mondo che pure era un mondo, i piú fra noi erano troppo esausti perfino per attendere.

A sera, intorno alla stufa, ancora una volta Charles, Arthur ed io ci sentimmo ridiventare uomini. Potevamo parlare di tutto. Mi appassionava il discorso di Arthur sul modo come si passano le domeniche a Provenchères nei Vosgi, e Charles piangeva quasi quando io gli raccontai dell’armistizio in Italia, dell’inizio torbido e di-sperato della resistenza partigiana, dell’uomo che ci aveva traditi e della nostra cattura sulle montagne.

Nel buio, dietro e sopra di noi, gli otto malati non perdevano una sillaba, anche quelli che non capivano il francese. Soltanto Sómogyi si accaniva a confermare alla morte la sua dedizione.

26 gennaio.

Noi giacevamo in un mondo di morti e di larve. L’ultima traccia di civiltà era sparita intorno a noi e dentro di noi. L’opera di bestializzazione, intrapre-sa dai tedeschi trionfanti, era stata portata a compimen-to dai tedeschi disfatti.

Letteratura italiana Einaudi 184

Primo Levi - Se questo è un uomo È uomo chi uccide, è uomo chi fa o subisce ingiustizia; non è uomo chi, perso ogni ritegno, divide il letto con un cadavere. Chi ha atteso che il suo vicino finisse di morire per togliergli un quarto di pane, è, pur senza sua colpa, piú lontano dal modello dell’uomo pensante, che il piú rozzo pigmeo e il sadico piú atroce.

Parte del nostro esistere ha sede nelle anime di chi ci accosta: ecco perché è non-umana l’esperienza di chi ha vissuto giorni in cui l’uomo è stato una cosa agli occhi dell’uomo. Noi tre ne fummo in gran parte immuni, e ce ne dobbiamo mutua gratitudine; perciò la mia amicizia con Charles resisterà al tempo.

Ma a migliaia di metri sopra di noi, negli squarci fra le nuvole grige, si svolgevano i complicati miracoli dei duelli aerei. Sopra noi, nudi impotenti inermi, uomini del nostro tempo cercavano la reciproca morte coi piú raffinati strumenti. Un loro gesto del dito poteva provo-care la distruzione del campo intero, annientare migliaia di uomini; mentre la somma di tutte le nostre energie e volontà non sarebbe bastata a prolungare di un minuto la vita di uno solo di noi.

La sarabanda cessò a notte, e la camera fu di nuovo piena del monologo di Sómogyi.

In piena oscurità mi trovai sveglio di soprassalto.

«L’pauv’ vieux» taceva: aveva finito. Con l’ultimo sussulto di vita si era buttato a terra dalla cuccetta: ho udito l’urto delle ginocchia, delle anche, delle spalle e del capo.

– La mort l’a chassé de son lit, – definí Arthur.

Non potevamo certo portarlo fuori nella notte. Non ci restava che riaddormentarci.

27 gennaio.

L’alba. Sul pavimento, l’infame tumulto di membra stecchite, la cosa Sómogyi.

Ci sono lavori piú urgenti: non ci si può lavare, non possiamo toccarlo che dopo di aver cucinato e mangia-Letteratura italiana Einaudi 185

Primo Levi - Se questo è un uomo to. E inoltre, «... rien de si dégoûtant que les déborde-ments», dice giustamente Charles; bisogna vuotare la latrina. I vivi sono piú esigenti; i morti possono attendere.

Ci mettemmo al lavoro come ogni giorno.

I russi arrivarono mentre Charles ed io portavamo Sómogyi poco lontano. Era molto leggero. Rovesciam-mo la barella sulla neve grigia.

Charles si tolse il berretto. A me dispiacque di non avere berretto.

Degli undici della Infektionsabteilung, fu Sómogyi il solo che morí nei dieci giorni. Sertelet, Cagnolati, Towarowski, Lakmaker e Dorget (di quest’ultimo non ho finora parlato; era un industriale francese che, dopo ope-rato di peritonite, si era ammalato di difterite nasale), sono morti qualche settimana piú tardi, nell’infermeria russa provvisoria di Auschwitz. Ho incontrato a Katowi-ce, in aprile, Schenck e Alcalai in buona salute. Arthur ha raggiunto felicemente la sua famiglia, e Charles ha ripreso la sua professione di maestro; ci siamo scambiati lunghe lettere e spero di poterlo ritrovare un giorno.

Avigliana-Torino, dicembre 1945 - gennaio 1947.

Letteratura italiana Einaudi 186

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Se questo è un uomo

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