Primo Levi - Se questo è un uomo sono scavati nel terreno vischioso; oscillando sulle anche a ogni colpo di pala. Io sono a metà dello scavo, Kraus e Clausner sono sul fondo, Gounan sopra di me, a livello del suolo. Solo Gounan può guardarsi intorno, e a mo-nosillabi avvisa ogni tanto Kraus dell’opportunità di ac-celerare il ritmo, o eventualmente di riposarsi, a seconda di chi passa per la strada. Clausner piccona, Kraus alza la terra a me palata per palata, e io a mano a mano la alzo a Gounan che la ammucchia a lato. Altri fanno la spola con le carriole e portano la terra chissà dove, non ci interessa, oggi il nostro mondo è questa buca di fango.
Kraus ha sbagliato un colpo, un pacchetto di mota vola e mi si spiaccica sulle ginocchia. Non è la prima volta che succede, senza molta fiducia lo ammonisco di fare attenzione: è ungherese, capisce assai male il tedesco, e non sa una parola di francese. È lungo lungo, ha gli occhiali e una curiosa faccia piccola e storta; quando ride sembra un bambino, e ride spesso. Lavora troppo, e troppo vigorosamente: non ha ancora imparato la nostra arte sotterranea di fare economia di tutto, di fiato, di movimenti, perfino di pensiero. Non sa ancora che è meglio farsi picchiare, perché di botte in genere non si muore, ma di fatica sí, e malamente, e quando uno se ne accorge è già troppo tardi. Pensa ancora... oh no, povero Kraus, non è ragionamento il suo, è solo la sua sciocca onestà di piccolo impiegato, se la è portata fin qui dentro, e ora gli pare che sia come fuori, dove lavorare è onesto e logico, e inoltre conveniente, perché, a quanto tutti dicono, quanto piú uno lavora, tanto piú guadagna e mangia.
– Regardez-moi ça!... Pas si vite, idiot! – impreca Gounan dall’alto; poi si ricorda di tradurre in tedesco: –
Langsam, du blöder Einer, langsam, verstanden? –; Kraus può anche ammazzarsi di fatica, se crede, ma non oggi, che lavoriamo in catena e il ritmo del nostro lavoro è condizionato dal suo.
Letteratura italiana Einaudi 140
Primo Levi - Se questo è un uomo Ecco, questa è la sirena del Carburo, adesso i prigionieri inglesi se ne vanno, sono le quattro e mezzo. Poi passeranno le ragazze ucraine, e allora saranno le cinque, potremo raddrizzare la schiena, e ormai solo la marcia di ritorno, l’appello e il controllo dei pidocchi ci divideranno dal riposo.
È l’adunata, «Antreten» da tutte le parti; da tutte le parti strisciano fuori i fantocci di fango, stirano le membra aggranchite, riportano gli attrezzi nelle baracche.
Noi estraiamo i piedi dal fosso, cautamente per non la-sciarvi succhiati gli zoccoli e ce ne andiamo, ciondolanti e grondanti, a inquadrarci per la marcia di rientro. «Zu dreien», per tre. Ho cercato di mettermi vicino ad Alberto, oggi abbiamo lavorato separati, abbiamo da chie-derci a vicenda come è andata: ma qualcuno mi ha dato una manata sullo stomaco, sono finito dietro, guarda, proprio vicino a Kraus.
Ora partiamo. Il Kapo scandisce il passo con voce du-ra: – Links, links, links –; dapprima si ha male ai piedi, poi a poco a poco ci si riscalda e i nervi si distendono.
Anche oggi, anche questo oggi che stamattina pareva invincibile ed eterno, l’abbiamo perforato attraverso tutti i suoi minuti; adesso giace conchiuso ed è subito dimenticato, già non è piú un giorno, non ha lasciato traccia nella memoria di nessuno. Lo sappiamo, che domani sarà come oggi: forse pioverà un po’ di piú o un po’ di meno, o forse invece di scavar terra andremo al Carburo a scaricar mattoni. O domani può anche finire la guerra, o noi essere tutti uccisi, o trasferiti in un altro campo, o capitare qualcuno di quei grandi rinnovamenti che, da che Lager è Lager, vengono infaticabilmente pronosti-cati imminenti e sicuri. Ma chi mai potrebbe seriamente pensare a domani?
La memoria è uno strumento curioso: finché sono stato in campo, mi hanno danzato per il capo due versi che ha scritto un mio amico molto tempo fa: Letteratura italiana Einaudi 141
Primo Levi - Se questo è un uomo
... infin che un giorno
senso non avrà piú dire: domani.
Qui è cosí. Sapete come si dice «mai» nel gergo del campo? «Morgen früh», domani mattina.
Adesso è l’ora di «links, links, links und links», l’ora in cui non bisogna sbagliare passo. Kraus è maldestro, si è già preso un calcio dal Kapo perché non sa camminare allineato: ed ecco, incomincia a gesticolare e a masticare un tedesco miserevole, odi odi, mi vuole chiedere scusa della palata di fango, non ha ancora capito dove siamo, bisogna proprio dire che gli ungheresi sono gente singolare.
Andare al passo e fare un discorso complicato in tedesco, è ben troppo, questa volta sono io che lo avverto che ha il passo sbagliato, e lo ho guardato, e ho visto i suoi occhi, dietro le gocciole di pioggia degli occhiali, e sono stati gli occhi dell’uomo Kraus.
Allora avvenne un fatto importante, e mette conto di raccontarlo adesso, forse per la stessa ragione per cui metteva conto che avvenisse allora. Mi accadde di fare un lungo discorso a Kraus: in cattivo tedesco, ma lento e staccato, sincerandomi, dopo ogni frase, che lui l’avesse capita.
Gli raccontai che avevo sognato di essere a casa mia, nella casa dove ero nato, seduto con la mia famiglia, con le gambe sotto il tavolo, e sopra molta, moltissima roba da mangiare. Ed era d’estate, ed era in Italia: a Napoli?
... ma sí, a Napoli, non è il caso di sottilizzare. Ed ecco, a un tratto suonava il campanello, e io mi alzavo pieno di ansia, e andavo ad aprire, e chi si vedeva? Lui, il qui presente Kraus Páli, coi capelli, pulito e grasso, e vestito da uomo libero, e in mano una pagnotta. Da due chili, ancora calda. Allora «Servus, Páli, wie geht’s?» e mi sentivo pieno di gioia, e lo facevo entrare e spiegavo ai miei chi era, e che veniva da Budapest, e perché era cosí ba-Letteratura italiana Einaudi 142
Primo Levi - Se questo è un uomo gnato: perché era bagnato, cosí, come adesso. E gli davo da mangiare e da bere, e poi un buon letto per dormire, ed era notte, ma c’era un meraviglioso tepore per cui in un momento eravamo tutti asciutti (sí, perché anch’io ero molto bagnato).
Che buon ragazzo doveva essere Kraus da borghese: non vivrà a lungo qui dentro, questo si vede al primo sguardo e si dimostra come un teorema. Mi dispiace non sapere l’ungherese, ecco che la sua commozione ha rotto gli argini, ed erompe in una marea di bislacche parole magiare. Non ho potuto capire altro che il mio nome, ma dai gesti solenni si direbbe che giura ed augura.
Povero sciocco Kraus. Se sapesse che non è vero, che non ho sognato proprio niente di lui, che per me anche lui è niente, fuorché in un breve momento, niente come tutto è niente quaggiú, se non la fame dentro, e il freddo e la pioggia intorno.
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Primo Levi - Se questo è un uomo DIE DREI LEUTE VOM LABOR
Quanti mesi sono passati dal nostro ingresso in campo? Quanti dal giorno in cui sono stato dimesso dal Ka-Be? E dal giorno dell’esame di chimica? E dalla selezione di ottobre?
Alberto ed io ci poniamo spesso queste domande, e molte altre ancora. Eravamo novantasei quando siamo entrati, noi, gli italiani del convoglio centosettantaquattromila; ventinove soltanto fra noi hanno sopravvissuto fino all’ottobre, e di questi, otto sono andati in selezione. Ora siamo ventuno, e l’inverno è appena incominciato. Quanti fra noi giungeranno vivi al nuovo anno?
Quanti alla primavera?
Da parecchie settimane ormai le incursioni sono ces-sate; la pioggia di novembre si è mutata in neve, e la ne-ve ha ricoperto le rovine. I tedeschi e i polacchi vengono al lavoro cogli stivaloni di gomma, i copriorecchi di pelo e le tute imbottite, i prigionieri inglesi con i loro meravi-gliosi giubbetti di pelliccia. Nel nostro Lager non hanno distribuito cappotti se non a qualche privilegiato; noi siamo un Kommando specializzato, il quale, in teoria, non lavora che al coperto: perciò noi siamo rimasti in tenuta estiva.
Noi siamo i chimici, e perciò lavoriamo ai sacchi di fenilbeta. Abbiamo sgomberato il magazzino dopo le prime incursioni, nel colmo dell’estate: la fenilbeta ci si incollava sotto gli abiti alle membra sudate e ci rodeva come una lebbra; la pelle si staccava dai nostri visi in grosse squame bruciate. Poi le incursioni si sono inter-rotte, e noi abbiamo riportato i sacchi nel magazzino. Poi il magazzino è stato colpito, e noi abbiamo ricoverato i sacchi nella cantina del Reparto Stirolo. Ora il magazzino è stato riparato, e bisogna accatastarvi i sacchi ancora una volta. L’odore acuto della fenilbeta impregna il no-Letteratura italiana Einaudi 144
Primo Levi - Se questo è un uomo stro unico abito, e ci accompagna giorno e notte come la nostra ombra. Finora, i vantaggi di essere nel Kommando Chimico si sono limitati a questi: gli altri hanno ricevuto i cappotti e noi no; gli altri portano sacchi di cinquanta chili di cemento, e noi sacchi di sessanta chili di fenilbeta. Come pensare ancora all’esame di chimica e al-le illusioni di allora? Almeno quattro volte, durante l’estate, si è parlato del laboratorio del Doktor Pannwitz nel Bau 939, ed è corsa la voce che sarebbero stati scelti fra noi gli analisti per il reparto Polimerizzazione.
Adesso basta, adesso è finito. È l’ultimo atto: l’inverno è incominciato, e con lui la nostra ultima battaglia. Non è piú dato dubitare che non sia l’ultima. In qualunque momento del giorno ci accada di prestare ascolto alla voce dei nostri corpi, di interrogare le nostre membra, la risposta è una: le forze non ci basteranno. Tutto intorno a noi parla di disfacimento e di fine. Metà del Bau 939 è un ammasso di lamiere contorte e di calcinacci; dalle con-dutture enormi dove prima ruggiva il vapore surriscalda-to, pendono ora fino al suolo deformi ghiaccioli azzurri grossi come pilastri. La Buna è silenziosa adesso, e quando il vento è propizio, se si tende l’orecchio, si sente un continuo sordo fremito sotterraneo, il quale è il fronte che si avvicina. Sono arrivati in Lager trecento prigionieri del ghetto di Lodz, che i tedeschi hanno trasferiti davanti all’avanzata dei russi: hanno portato fino a noi la voce della lotta leggendaria nel ghetto di Varsavia, e ci hanno raccontato di come, già un anno fa, i tedeschi hanno liquidato il campo di Lublino: quattro mitragliatrici agli angoli e le baracche incendiate; il mondo civile non lo saprà mai. A quando la nostra volta?
Stamane il Kapo ha fatto come al solito la divisione delle squadre. I dieci del Clormagnesio, al Clormagnesio: e quelli partono, strascicando i piedi, il piú lentamente possibile, perché il Clormagnesio è un lavoro du-rissimo: si sta tutto il giorno fino alle caviglie nell’acqua Letteratura italiana Einaudi 145
Primo Levi - Se questo è un uomo salmastra e gelata, che macera le scarpe, gli abiti e la pelle. Il Kapo afferra un mattone e lo scaglia nel mucchio: quelli si scansano goffamente ma non accelerano il passo. È questa quasi una consuetudine, avviene tutte le mattine, e non sempre suppone nel Kapo un preciso proposito di nuocere.
I quattro del Scheisshaus, al loro lavoro: e partono i quattro addetti alla costruzione della nuova latrina. Bisogna infatti sapere che, da quando, coll’arrivo dei convogli di Lodz e di Transilvania, noi abbiamo superato l’effettivo di cinquanta Häftlinge, il misterioso burocra-te tedesco che sovrintende a queste cose ci ha autorizzato alla erezione di uno «Zweiplatziges Kommando-scheisshaus», vale a dire di un cesso a due posti riservato al nostro Kommando. Noi non siamo insensibili a questo segno di distinzione, che fa del nostro uno dei pochi Kommandos a cui sia vanto l’appartenere: è però evidente che viene cosí a mancare il piú semplice dei prete-sti per assentarsi dal lavoro e per intessere combinazioni coi civili. – Noblesse oblige, – dice Henri, il quale ha altre corde al suo arco.
I dodici dei mattoni. I cinque di Meister Dahm. I due delle cisterne. Quanti assenti? Tre assenti. Homolka entrato stamane in Ka-Be, il Fabbro morto ieri, François trasferito chissà dove e chissà perché. Il conto torna; il Kapo registra ed è soddisfatto. Non restiamo ormai che noi diciotto della fenilbeta, oltre ai prominenti del Kommando. Ed ecco l’imprevedibile.
Il Kapo dice: – Il Doktor Pannwitz ha comunicato all’Arbeitsdienst che tre Häftlinge sono stati scelti per il Laboratorio. 169 509, Brackier; 175 633, Kandel; 174 517, Levi –. Per un istante le orecchie mi ronzano e la Buna mi gira intorno. Siamo tre Levi nel Kommando 98, ma Hundert Vierundsiebzig Fünf Hundert Siebzehn sono io, non c’è dubbio possibile. Io sono uno dei tre eletti.
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Primo Levi - Se questo è un uomo Il Kapo ci squadra con un riso astioso. Un belga, un rumeno e un italiano: tre «Franzosen», insomma. Possibile che dovessero proprio essere tre Franzosen gli eletti per il paradiso del laboratorio?
Molti compagni si congratulano; primo fra tutti Alberto, con genuina gioia, senza ombra d’invidia. Alberto non trova nulla a ridire sulla fortuna che mi è toccata, e ne è anzi ben lieto, sia per amicizia, sia perché ne trarrà lui pure dei vantaggi: infatti noi due siamo ormai legati da uno strettissimo patto di alleanza, per cui ogni boccone «organizzato» viene diviso in due parti rigorosamente uguali. Non ha motivo di invidiarmi, poiché entrare in Laboratorio non rientrava né nelle sue speranze, né pure nei suoi desideri. Il sangue delle sue vene è troppo libero perché Alberto, il mio amico non domato, pensi di adagiarsi in un sistema; il suo istinto lo porta altrove, verso altre soluzioni, verso l’imprevisto, l’estem-poraneo, il nuovo. A un buon impiego, Alberto preferi-sce senza esitare gli incerti e le battaglie della «libera professione».