Cosí gli Häftlinge raccontano dei loro «protettori» e
«amici» civili: con ostentata discrezione, senza far nomi, per non comprometterli e anche e soprattutto per non crearsi indesiderabili rivali. I piú consumati, i seduttori di professione come Henri, non ne parlano affatto; essi circondano i loro successi di un’aura di equivoco mistero, e si limitano agli accenni e alle allusioni, calcolate in modo da suscitare negli ascoltatori la leggenda confusa e inquietante che essi godano delle buone grazie di civili illimitatamente potenti e generosi. Questo in vista di un preciso scopo: la fama di fortuna, come altrove abbiamo detto, si dimostra di fondamentale utilità a chi sa circondarsene.
Letteratura italiana Einaudi 126
Primo Levi - Se questo è un uomo La fama di seduttore, di «organizzato», suscita insieme invidia, scherno, disprezzo e ammirazione. Chi si lascia vedere in atto di mangiare roba «organizzata» viene giudicato assai severamente; è questa una grave mancanza di pudore e di tatto, oltre che una evidente stoltezza.
Altrettanto stolto e impertinente sarebbe domandare
«chi te l’ha dato? dove l’hai trovato? come hai fatto?»
Solo i Grossi Numeri, sciocchi inutili e indifesi, che nulla sanno delle regole del Lager, fanno di queste domande; a queste domande non si risponde, o si risponde
«Verschwinde, Mensch!», «Hau’ ab», «Uciekaj»,
«Schiess’ in den Wind», «Va chier»; con uno insomma dei moltissimi equivalenti di «Lévati di torno» di cui è ricco il gergo del campo.
C’è anche chi si specializza in complesse e pazienti campagne di spionaggio, per individuare qual è il civile o il gruppo di civili a cui il tale fa capo, e cerca poi in va-ri modi di soppiantarlo. Ne nascono interminabili con-troversie di priorità, rese piú amare per il perdente dal fatto che un civile già «sgrossato» è quasi sempre piú redditizio, e soprattutto piú sicuro, di un civile al suo primo contatto con noi. È un civile che vale molto di piú, per evidenti ragioni sentimentali e tecniche: conosce già i fondamenti dell’«organizzazione», le sue regole e i suoi pericoli, e inoltre ha dimostrato di essere in grado di superare la barriera di casta.
Infatti, noi per i civili siamo gli intoccabili. I civili, piú o meno esplicitamente, e con tutte le sfumature che stanno fra il disprezzo e la commiserazione, pensano che, per essere stati condannati a questa nostra vita, per essere ridotti a questa nostra condizione, noi dobbiamo esserci macchiati di una qualche misteriosa gravissima colpa. Ci odono parlare in molte lingue diverse, che essi non comprendono, e che suonano loro grottesche come voci animali; ci vedono ignobilmente asserviti, senza capelli, senza onore e senza nome, ogni giorno percossi, Letteratura italiana Einaudi 127
Primo Levi - Se questo è un uomo ogni giorno piú abietti, e mai leggono nei nostri occhi una luce di ribellione, o di pace, o di fede. Ci conoscono ladri e malfidi, fangosi cenciosi e affamati, e, confonden-do l’effetto con la causa, ci giudicano degni della nostra abiezione. Chi potrebbe distinguere i nostri visi? per lo-ro noi siamo «Kazett», neutro singolare.
Naturalmente questo non impedisce a molti di loro di gettarci qualche volta un pezzo di pane o una patata, o di affidarci, dopo la distribuzione della «Zivilsuppe»
in cantiere, le loro gamelle da raschiare e restituire lava-te. Essi vi si inducono per togliersi di torno qualche im-portuno sguardo famelico, o per un momentaneo impulso di umanità, o per la semplice curiosità di vederci accorrere da ogni parte a contenderci il boccone l’un l’altro, bestialmente e senza ritegno, finché il piú forte lo ingozza, e allora tutti gli altri se ne vanno scornati e zoppicanti.
Ora, tra me e Lorenzo non avvenne nulla di tutto questo. Per quanto di senso può avere il voler precisare le cause per cui proprio la mia vita, fra migliaia di altre equivalenti, ha potuto reggere alla prova, io credo che proprio a Lorenzo debbo di essere vivo oggi; e non tanto per il suo aiuto materiale, quanto per avermi costantemente rammentato, con la sua presenza, con il suo modo cosí piano e facile di essere buono, che ancora esi-steva un mondo giusto al di fuori del nostro, qualcosa e qualcuno di ancora puro e intero, di non corrotto e non selvaggio, estraneo all’odio e alla paura; qualcosa di assai mal definibile, una remota possibilità di bene, per cui tuttavia metteva conto di conservarsi.
I personaggi di queste pagine non sono uomini. La lo-ro umanità è sepolta, o essi stessi l’hanno sepolta, sotto l’offesa subita o inflitta altrui. Le SS malvage e stolide, i Kapos, i politici, i criminali, i prominenti grandi e piccoli, fino agli Häftlinge indifferenziati e schiavi, tutti i gra-dini della insana gerarchia voluta dai tedeschi, sono pa-Letteratura italiana Einaudi 128
Primo Levi - Se questo è un uomo radossalmente accomunati in una unitaria desolazione interna.
Ma Lorenzo era un uomo; la sua umanità era pura e incontaminata, egli era al di fuori di questo mondo di negazione. Grazie a Lorenzo mi è accaduto di non dimenticare di essere io stesso un uomo.
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Primo Levi - Se questo è un uomo OTTOBRE 1944
Con tutte le nostre forze abbiamo lottato perché l’inverno non venisse. Ci siamo aggrappati a tutte le ore tiepide, a ogni tramonto abbiamo cercato di trattenere il sole in cielo ancora un poco, ma tutto è stato inutile. Ie-ri sera il sole si è coricato irrevocabilmente in un intrico di nebbia sporca, di ciminiere e di fili, e stamattina è inverno.
Noi sappiamo che cosa vuol dire, perché eravamo qui l’inverno scorso, e gli altri lo impareranno presto. Vuol dire che, nel corso di questi mesi, dall’ottobre all’aprile, su dieci di noi, sette morranno. Chi non morrà, soffrirà minuto per minuto, per ogni giorno, per tutti i giorni: dal mattino avanti l’alba fino alla distribuzione della zuppa serale dovrà tenere costantemente i muscoli tesi, danzare da un piede all’altro, sbattersi le braccia sotto le ascelle per resistere al freddo. Dovrà spendere pane per procurarsi guanti, e perdere ore di sonno per ripararli quando saranno scuciti. Poiché non si potrà piú mangiare all’aperto, dovremo consumare i nostri pasti nella baracca, in piedi, disponendo ciascuno di un palmo di pavimento, e appoggiarsi sulle cuccette è proibito. A tutti si apriranno ferite sulle mani, e per ottenere un bendag-gio bisognerà attendere ogni sera per ore in piedi nella neve e nel vento.
Come questa nostra fame non è la sensazione di chi ha saltato un pasto, cosí il nostro modo di aver freddo esigerebbe un nome particolare. Noi diciamo «fame», diciamo «stanchezza», «paura», e «dolore», diciamo
«inverno», e sono altre cose. Sono parole libere, create e usate da uomini liberi che vivevano, godendo e soffrendo, nelle loro case. Se i Lager fossero durati piú a lungo, un nuovo aspro linguaggio sarebbe nato; e di questo si sente il bisogno per spiegare cosa è faticare l’intera gior-Letteratura italiana Einaudi 130
Primo Levi - Se questo è un uomo nata nel vento, sotto zero, con solo indosso camicia, mutande, giacca e brache di tela, e in corpo debolezza e fa-me e consapevolezza della fine che viene.
In quel modo con cui si vede finire una speranza, cosí stamattina è stato inverno. Ce ne siamo accorti quando siamo usciti dalla baracca per andarci a lavare: non c’erano stelle, l’aria buia e fredda aveva odore di neve.
In piazza dell’Appello, nella prima luce, alla adunata per il lavoro, nessuno ha parlato. Quando abbiamo visto i primi fiocchi di neve, abbiamo pensato che, se l’anno scorso a quest’epoca ci avessero detto che avremmo visto ancora un inverno in Lager, saremmo andati a toccare il reticolato elettrico; e che anche adesso ci andrem-mo, se fossimo logici, se non fosse di questo insensato pazzo residuo di speranza inconfessabile.
Perché «inverno» vuol dire altro ancora.
La primavera scorsa, i tedeschi hanno costruito due enormi tende in uno spiazzo del nostro Lager. Ciascuna per tutta la buona stagione ha ospitato piú di mille uomini; ora le tende sono state smontate, e duemila ospiti in soprannumero affollano le nostre baracche. Noi vecchi prigionieri sappiamo che queste irregolarità non piacciono ai tedeschi, e che presto qualcosa succederà perché il nostro numero venga ridotto.
Le selezioni si sentono arrivare. «Selekcja»: la ibrida parola latina e polacca si sente una volta, due volte, molte volte, intercalata in discorsi stranieri; dapprima non la si individua, poi si impone all’attenzione, infine ci perseguita.
Stamattina i polacchi dicono «Selekcja». I polacchi sono i primi a sapere le notizie, e cercano in genere di non lasciarle diffondere, perché sapere qualcosa mentre gli altri non la sanno ancora può sempre essere vantaggioso. Quando tutti sapranno che la selezione è imminente, il pochissimo che qualcuno potrebbe tentare per defilarsi (corrompere con pane o con tabacco qualche medico o qualche prominente; passare dalla baracca in Letteratura italiana Einaudi 131
Primo Levi - Se questo è un uomo Ka-Be o viceversa, al momento esatto, in modo da incro-ciare la commissione) sarà già monopolio loro.
Nei giorni che seguono, l’atmosfera del Lager e del cantiere è satura di «Selekcja»: nessuno sa nulla di preciso e tutti ne parlano, perfino gli operai liberi, polacchi, italiani, francesi, che di nascosto vediamo sul lavoro.
Non si può dire che ne risulti un’ondata di abbattimen-to. Il nostro morale collettivo è troppo inarticolato e piatto per essere instabile. La lotta contro la fame, il freddo e il lavoro lascia poco margine per il pensiero, anche se si tratta di questo pensiero. Ciascuno reagisce a suo modo, ma quasi nessuno con quegli atteggiamenti che sembrerebbero piú plausibili perché sono realistici, e cioè con la rassegnazione o con la disperazione.
Chi può provvedere provvede; ma sono i meno, perché sottrarsi alla selezione è molto difficile, i tedeschi fanno queste cose con grande serietà e diligenza.
Chi non può provvedere materialmente cerca difesa altrimenti. Ai gabinetti, al lavatoio, noi ci mostriamo l’un l’altro il torace, le natiche, le cosce, e i compagni ci rassi-curano: – Puoi essere tranquillo, non sarà certo la tua volta, ... du bist kein Muselmann... io piuttosto invece...
– e a loro volta si calano le brache e sollevano la camicia.
Nessuno nega altrui questa elemosina: nessuno è cosí sicuro della propria sorte da avere animo di condannare altri. Anch’io ho sfacciatamente mentito al vecchio Wertheimer; gli ho detto che, se lo interrogheranno, risponda di avere quarantacinque anni, e che non trascuri di farsi radere la sera prima, anche a costo di rimetterci un quarto di pane; che, a parte ciò, non deve nutrire timori, e che d’altronde non è per nulla certo che si tratti di una selezione per il gas: non ha sentito dal Blockältester che i prescelti andranno a Jaworszno al campo di convalescenza?
È assurdo che Wertheimer speri: dimostra sessant’an-ni, ha enormi varici, non sente quasi neppur piú la fame.
Eppure se ne va in cuccetta sereno e tranquillo, e, a chi gli Letteratura italiana Einaudi 132