I due francesi con la scarlattina erano simpatici. Erano due provinciali dei Vosgi, entrati in campo da pochi giorni con un grosso trasporto di civili rastrellati dai tedeschi in ritirata dalla Lorena. Il piú anziano si chiamava Arthur, era contadino, piccolo e magro. L’altro, suo compagno di cuccetta, si chiamava Charles, era maestro di scuola e aveva trentadue anni; invece della camicia gli era toccata una canottiera estiva comicamente corta.
Il quinto giorno venne il barbiere. Era un greco di Salonicco; solo il bello spagnolo della sua gente, ma capiva qualche parola di tutte le lingue che si parlavano in campo. Si chiamava Askenazi, ed era in campo da quasi tre anni; non so come avesse potuto ottenere la carica di
«Frisör» del Ka-Be: infatti non parlava tedesco né polacco e non era eccessivamente brutale. Prima che entrasse, lo avevo sentito parlare a lungo concitatamente nel corridoio col medico, che era suo compatriota. Mi parve che avesse una espressione insolita, ma poiché la mimica dei levantini non corrisponde alla nostra, non compren-devo se fosse spaventato, o lieto, o emozionato. Mi conosceva, o almeno sapeva che io ero italiano.
Quando fu il mio turno, scesi laboriosamente dalla cuccetta. Gli chiesi in italiano se c’era qualcosa di nuovo: egli interruppe rasatura, strizzò gli occhi in modo so-lenne e allusivo, indicò la finestra col mento, poi fece colla mano un gesto ampio verso ponente:
– Morgen, alle Kamarad weg.
Mi guardò un momento cogli occhi spalancati, come in attesa del mio stupore, poi aggiunse: – Todos todos, –
e riprese il lavoro. Sapeva delle mie pietrine, perciò mi rase con una certa delicatezza.
La notizia non provocò in me alcuna emozione diretta.
Da molti mesi non conoscevo piú il dolore, la gioia, il ti-Letteratura italiana Einaudi 162
Primo Levi - Se questo è un uomo more, se non in quel modo staccato e lontano che è caratteristico del Lager, e che si potrebbe chiamare condizio-nale: se avessi ora – pensavo – la mia sensibilità di prima, questo sarebbe un momento estremamente emozionante.
Avevo le idee perfettamente chiare; da molto tempo Alberto ed io avevamo previsto i pericoli che avrebbero accompagnato il momento della evacuazione del campo e della liberazione. Del resto la notizia portata da Askenazi non era che la conferma di una che circolava già da vari giorni: che i russi erano a Czenstochowa, cento chilometri a nord; che erano a Zakopane, cento chilometri a sud; che in Buna i tedeschi già preparavano le mine di sabotaggio.
Guardai uno per uno i visi dei miei compagni di camera: era chiaro che non metteva conto di parlarne con nessuno di loro. Mi avrebbero risposto: «Ebbene?» e tutto sarebbe finito lí. I francesi erano diversi, erano ancora freschi.
– Sapete? – dissi loro: – Domani si evacua il campo.
Mi coprirono di domande: – Verso dove? A piedi?...
e anche i malati? quelli che non possono camminare? –
Sapevano che ero un vecchio prigioniero e che capivo il tedesco: ne concludevano che sapessi sull’argomento molto piú di quanto non volessi ammettere.
Non sapevo altro: lo dissi, ma quelli continuarono colle domande. Che seccatura. Ma già, erano in Lager da qualche settimana, non avevano ancora imparato che in Lager non si fanno domande.
Nel pomeriggio venne il medico greco. Disse che, anche fra i malati, tutti quelli che potevano camminare sarebbero stati forniti di scarpe e di abiti, e sarebbero partiti il giorno dopo, con i sani, per una marcia di venti chilometri. Gli altri sarebbero rimasti in Ka-Be, con personale di assistenza scelto fra i malati meno gravi.
Letteratura italiana Einaudi 163
Primo Levi - Se questo è un uomo Il medico era insolitamente ilare, sembrava ubriaco.
Lo conoscevo, era un uomo colto, intelligente, egoista e calcolatore. Disse ancora che tutti indistintamente avrebbero ricevuto tripla razione di pane, al che i malati si rallegrarono visibilmente. Gli facemmo qualche domanda su che cosa sarebbe stato di noi. Rispose che probabilmente i tedeschi ci avrebbero abbandonati al nostro destino: no, non credeva che ci avrebbero uccisi.
Non metteva molto impegno a nascondere che pensava il contrario, la sua stessa allegria era significativa.
Era già equipaggiato per la marcia; appena fu uscito, i due ragazzi ungheresi presero a parlare concitatamente fra di loro. Erano in avanzata convalescenza, ma molto deperiti. Si capiva che avevano paura di restare coi malati, deliberavano di partire coi sani. Non si trattava di un ragionamento: è probabile che anche io, se non mi fossi sentito cosí debole, avrei seguito l’istinto del gregge; il terrore è eminentemente contagioso, e l’individuo atterrito cerca in primo luogo la fuga.
Fuori della baracca si sentiva il campo in insolita agi-tazione. Uno dei due ungheresi si alzò, uscí e tornò do-po mezz’ora carico di stracci immondi. Doveva averli sottratti al magazzino degli effetti da passare alla disinfezione. Lui e il suo compagno si vestirono febbrilmente, indossando stracci su stracci. Si vedeva che avevano fretta di mettersi davanti al fatto compiuto, prima che la paura stessa li facesse recedere. Era insensato pensare di fare anche solo un’ora di cammino deboli come erano, e per di piú nella neve, e con quelle scarpe rotte trovate all’ultimo momento. Tentai di spiegarlo, ma mi guardarono senza rispondere. Avevano gli occhi come le bestie impaurite.
Solo per un attimo mi passò per il capo che potevano anche aver ragione loro. Uscirono maldestri dalla finestra, li vidi, fagotti informi, barcollare fuori nella notte.
Non sono tornati; ho saputo molto piú tardi che, non Letteratura italiana Einaudi 164
Primo Levi - Se questo è un uomo potendo proseguire, furono abbattuti dalle SS poche ore dopo l’inizio della marcia.
Anche per me ci voleva un paio di scarpe: era chiaro.
Pure ci volle forse un’ora perché riuscissi a vincere la nausea, la febbre e l’inerzia. Ne trovai un paio nel corridoio (i sani avevano saccheggiato il deposito delle scarpe dei ricoverati, e si erano prese le migliori: le piú scadenti, sfondate e spaiate, giacevano in tutti i canti). Proprio là incontrai Kosman, un alsaziano. Era, da civile corrispon-dente della «Reuter» a Clermont-Ferrand: anche lui ecci-tato ed euforico. Disse: – Se dovessi tu ritornare prima di me, scrivi al sindaco di Metz che io sto per rientrare.
Kosman aveva notoriamente conoscenze fra i Prominenti, perciò il suo ottimismo mi parve buon indizio e lo utilizzai per giustificare davanti a me stesso la mia inerzia. Nascosi le scarpe e ritornai a letto.
A tarda notte venne ancora il medico greco, con un sacco sulle spalle e un passamontagna. Gettò sulla mia cuccetta un romanzo francese: – Tieni, leggi, italiano. Me lo renderai quando ci rivedremo. – Ancora oggi lo odio per questa sua frase. Sapeva che noi eravamo condannati.
E venne finalmente Alberto, sfidando il divieto, a salu-tarmi dalla finestra. Era il mio indivisibile: noi eravamo «i due italiani» e per lo piú i compagni stranieri confondeva-no i nostri nomi. Da sei mesi dividevamo la cuccetta, e ogni grammo di cibo organizzato extra-razione; ma lui aveva superata la scarlattina da bambino, e io non avevo quindi potuto contagiarlo. Perciò lui partí e io rimasi. Ci salutammo, non occorrevano molte parole, ci eravamo dette tutte le nostre cose già infinite volte. Non credeva-mo che saremmo rimasti a lungo separati. Aveva trovato grosse scarpe di cuoio, in discreto stato: era uno di quelli che trovano subito tutto ciò di cui hanno bisogno.
Anche lui era allegro e fiducioso, come tutti quelli che partivano. Era comprensibile: stava per accadere qualcosa di grande e di nuovo: si sentiva finalmente intorno Letteratura italiana Einaudi 165
Primo Levi - Se questo è un uomo una forza che non era quella della Germania, si sentiva materialmente scricchiolare tutto quel nostro mondo maledetto. O almeno, questo sentivano i sani, che, per quanto stanchi e affamati, avevano modo di muoversi; ma è indiscutibile che chi è troppo debole, o nudo, o scalzo, pensa e sente in un altro modo, e ciò che dominava le nostre menti era la sensazione paralizzante di essere totalmente inermi e in mano alla sorte.
Tutti i sani (tranne qualche ben consigliato che all’ultimo istante si spogliò e si cacciò in qualche cuccetta di infermeria) partirono nella notte sul 18 gennaio 1945.
Dovevano essere circa ventimila, provenienti da vari campi. Nella quasi totalità, essi scomparvero durante la marcia di evacuazione: Alberto è fra questi. Qualcuno scriverà forse un giorno la loro storia.
Noi restammo dunque nei nostri giacigli, soli con le nostre malattie, e con la nostra inerzia piú forte della paura.
Nell’intero Ka-Be eravamo forse ottocento. Nella nostra camera eravamo rimasti undici, ciascuno in una cuccetta, tranne Charles e Arthur che dormivano insieme. Spento il ritmo della grande macchina del Lager, incominciarono per noi i dieci giorni fuori del mondo e del tempo.
18 gennaio.
Nella notte dell’evacuazione le cucine del campo avevano ancora funzionato, e il mattino seguente fu fatta nel l’infermeria l’ultima distribuzione di zuppa. L’impianto centrale di riscaldamento era stato abbandonato; nelle baracche ristagnava ancora un po’