Detto fatto traversarono la città e, usciti fuori dalle mura, si fermarono in un campo solitario che, su per giù, somigliava a tutti gli altri campi.
– Eccoci giunti, – disse la Volpe al burattino. – Ora chinati giù a terra, scava con le mani una piccola buca nel campo e mettici dentro le monete d’oro.
Pinocchio ubbidì. Scavò la buca, ci pose le quattro monete d’oro che gli erano rimaste: e dopo ricoprì la buca con un po’ di terra.
– Ora poi, – disse la Volpe, – vai alla gora qui vicina, prendi una secchia d’acqua e annaffia il terreno dove hai seminato.
Pinocchio andò alla gora, e perché non aveva lì per lì una secchia, si levò di piedi una ciabatta e, riempitala d’acqua, annaffiò la terra che copriva la buca. Poi domandò:
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Carlo Collodi - Le avventure di Pinocchio
– C’è altro da fare?
– Nient’altro, – rispose la Volpe. – Ora possiamo andar via. Tu poi ritorna qui fra una ventina di minuti e troverai l’arboscello già spuntato dal suolo e coi rami tutti carichi di monete. Il povero burattino, fuori di sé dalla contentezza, ringraziò mille volte la Volpe e il Gatto, e promise loro un bellissimo regalo.
– Noi non vogliamo regali, – risposero quei due malanni. – A noi ci basta di averti insegnato il modo di arricchire senza durar fatica, e siamo contenti come pa-sque.
Ciò detto salutarono Pinocchio, e augurandogli una buona raccolta, se ne andarono per i fatti loro.
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Carlo Collodi - Le avventure di PinocchioPinocchio è derubato delle sue monete d’oro e, pergastigo, si busca quattro mesi di prigione.
Il burattino, ritornato in città, cominciò a contare i minuti a uno a uno; e, quando gli parve che fosse l’ora, riprese subito la strada che menava al Campo dei miracoli.
E mentre camminava con passo frettoloso, il cuore gli batteva forte e gli faceva tic, tac, tic, tac, come un orologio da sala, quando corre davvero. E intanto pen-sava dentro di sé:
– E se invece di mille monete, ne trovassi su i rami dell’albero duemila?... E se invece di duemila, ne trovassi cinquemila?... E se invece di cinquemila ne trovassi centomila? Oh che bel signore, allora, che divente-rei!... Vorrei avere un bel palazzo, mille cavallini di legno e mille scuderie, per potermi baloccare, una can-tina di rosoli e di alchermes, e una libreria tutta piena di canditi, di torte, di panettoni, di mandorlati e di cialdo-ni colla panna.
Così fantasticando, giunse in vicinanza del campo, e lì si fermò a guardare se per caso avesse potuto scorgere qualche albero coi rami carichi di monete: ma non vide nulla. Fece altri cento passi in avanti, e nulla: entrò sul campo... andò proprio su quella piccola buca, dove aveva sotterrato i suoi zecchini, e nulla. Allora diventò pensieroso e, dimenticando le regole del Galateo e della buona creanza, tirò fuori una mano di tasca e si dette una lunghissima grattatina di capo.
In quel mentre sentì fischiare negli orecchi una gran risata: e voltatosi in su, vide sopra un albero un grosso pappagallo che si spollinava le poche penne che aveva addosso.
– Perché ridi? – gli domandò Pinocchio con voce di bizza.
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– Rido, perché nello spollinarmi mi son fatto il solle-tico sotto le ali.
Il burattino non rispose. Andò alla gora e riempita d’acqua la solita ciabatta, si pose nuovamente ad annaffiare la terra che ricuopriva le monete d’oro.
Quand’ecco che un’altra risata, anche più impertinente della prima, si fece sentire nella solitudine silen-ziosa di quel campo.
– Insomma, – gridò Pinocchio, arrabbiandosi, – si può sapere, Pappagallo mal educato, di che cosa ridi?
– Rido di quei barbagianni, che credono a tutte le scioccherie e che si lasciano trappolare da chi è più furbo di loro.
– Parli forse di me?
– Sì, parlo di te, povero Pinocchio, di te che sei così dolce di sale, da credere che i denari si possano seminare e raccogliere nei campi, come si seminano i fagioli e le zucche. Anch’io l’ho creduto una volta, e oggi ne porto le pene. Oggi (ma troppo tardi!) mi son dovuto persuadere che per mettere insieme onestamente pochi soldi, bisogna saperseli guadagnare o col lavoro delle proprie mani o coll’ingegno della propria testa.
– Non ti capisco, – disse il burattino, che già cominciava a tremare dalla paura.
– Pazienza! Mi spiegherò meglio, – soggiunse il Pappagallo. – Sappi dunque che, mentre tu eri in città, la Volpe e il Gatto sono tornati in questo campo: hanno preso le monete d’oro sotterrate, e poi sono fuggiti come il vento. E ora chi li raggiunge, è bravo!
Pinocchio restò a bocca aperta, e non volendo credere alle parole del Pappagallo, cominciò colle mani e colle unghie a scavare il terreno che aveva annaffiato. E
scava, scava, scava, fece una buca così profonda, che ci sarebbe entrato per ritto un pagliaio: ma le monete non ci erano più.
Allora, preso dalla disperazione, tornò di corsa in Letteratura italiana Einaudi
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Carlo Collodi - Le avventure di Pinocchio città e andò difilato in tribunale, per denunziare al giudice i due malandrini, che lo avevano derubato.
Il giudice era uno scimmione della razza dei Gorilla: un vecchio scimmione rispettabile per la sua grave età, per la sua barba bianca e specialmente per i suoi oc-chiali d’oro, senza vetri, che era costretto a portare con-tinuamente, a motivo di una flussione d’occhi, che lo tormentava da parecchi anni.
Pinocchio, alla presenza del giudice, raccontò per filo e per segno l’iniqua frode, di cui era stato vittima; dette il nome, il cognome e i connotati dei malandrini, e finì col chiedere giustizia.