Pubblica su «Botteghe Oscure» (una rivista letteraria romana diretta da Giorgio Bassani) il racconto La formica argentina. Prosegue la collaborazione con l’«Unità», scrivendo contributi di vario genere (mai raccolti in volume), sospesi tra la narrazione, il reportage e l’apologo sociale; negli ultimi mesi dell’anno appaiono le prime novelle di Marcovaldo.
1953
Dopo Il Bianco Veliero e I giovani del Po, lavora per alcuni anni a un terzo tentativo di narrazione d’ampio respiro, La collana della regina, un romanzo realistico-social-grottesco-gogoliano di ambiente 2
torinese e operaio, destinato anch’esso a rimanere inedito.
Sulla rivista romana «Nuovi Argomenti» esce il racconto Gli avanguardisti a Mentone.
1954
Inizia a scrivere sul settimanale «Il Contemporaneo», diretto da Romano Bilenchi, Carlo Salinari e Antonello Trombadori; la collaborazione durerà quasi tre anni.
Esce nei «Gettoni» L’entrata in guerra.
Viene definito il progetto delle Fiabe italiane, scelta e trascrizione di duecento racconti popolari delle varie regioni d’Italia dalle raccolte folkloristiche ottocentesche, corredata da introduzione e note di commento. Durante il lavoro preparatorio Calvino si avvale dell’assistenza dell’etnologo Giuseppe Cocchiara, ispiratore, per la collana dei Millenni, della collezione dei «Classici della fiaba».
Comincia con una corrispondenza dalla Quindicesima Mostra cinematografica di Venezia una collaborazione con la rivista «Cinema Nuovo», che durerà alcuni anni. Si reca spesso a Roma, dove, a partire da quest’epoca, trascorre buona parte del suo tempo.
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1955
Dal primo gennaio acquista presso Einaudi la qualifica di dirigente, che manterrà fino al 30 giugno 1961; dopo quella data diventerà consulente editoriale.
Esce su «Paragone. Letteratura» Il midollo del leone, primo di una serie di impegnativi saggi, volti a definire la propria idea di letteratura rispetto alle principali tendenze culturali del tempo.
Fra gli interlocutori più agguerriti e autorevoli, quelli che Calvino chiamerà gli hegelo-marxiani: Cesare Cases, Renato Solmi, Franco Fortini.
Stringe con l’attrice Elsa De Giorgi una relazione destinata a durare qualche anno.
1956
Appaiono le Fiabe italiane. Il successo dell’opera consolida l’immagine di un Calvino «favolista» (che diversi critici vedono in contrasto con l’intellettuale impegnato degli interventi teorici).
Scrive l’atto unico La panchina, musicato da Sergio Liberovici, che viene rappresentato in ottobre al Teatro Donizetti di Bergamo.
Partecipa al dibattito su Metello con una lettera a Vasco Pratolini, 4
pubblicata su «Società». Dedica uno degli ultimi interventi sul
«Contemporaneo» a Pier Paolo Pasolini, in polemica con una parte della critica di sinistra.
Il ventesimo congresso del PCUS apre un breve periodo di speranze in una trasformazione del mondo del socialismo reale. «Noi comunisti italiani eravamo schizofrenici. Sì, credo proprio che questo sia il termine esatto. Con una parte di noi eravamo e volevamo essere i testimoni della verità, i vendicatori dei torti subiti dai deboli e dagli oppressi, i difensori della giustizia contro ogni sopraffazione. Con un’altra parte di noi giustificavamo i torti, le sopraffazioni, la tirannide del partito, Stalin, in nome della Causa. Schizofrenici. Dissociati.
Ricordo benissimo che quando mi capitava di andare in viaggio in qualche paese del socialismo, mi sentivo profondamente a disagio, estraneo, ostile. Ma quando il treno mi riportava in Italia, quando ripassavo il confine, mi domandavo: ma qui, in Italia, in questa Italia, che cos’altro potrei essere se non comunista? Ecco perché il disgelo, la fine dello stalinismo, ci toglieva un peso terribile dal petto: perché la nostra figura morale, la nostra personalità dissociata, finalmente poteva ricomporsi, finalmente rivoluzione e verità tornavano a coincidere. Questo era, in quei giorni, il sogno e la speranza di molti di 5
noi» [Rep 80].
Interviene sul «Contemporaneo» nell’acceso Dibattito sulla cultura marxista che si svolge fra marzo e luglio, mettendo in discussione la linea culturale del PCI; più tardi (24 luglio) in una riunione della commissione culturale centrale polemizza con Alicata ed esprime «una mozione di sfiducia verso tutti i compagni che attualmente occupano posti direttivi nelle istanze culturali del partito» [cfr. «L’Unità», 13
giugno 1990]. Il disagio nei confronti delle scelte politiche del vertice comunista si fa più vivo: il 26 ottobre Calvino presenta all’organizzazione di partito dell’Einaudi, la cellula Giaime Pintor, un ordine del giorno che denuncia «l’inammissibile falsificazione della realtà» operata dall’«Unità» nel riferire gli avvenimenti di Poznan e di Budapest, e critica con asprezza l’incapacità del partito di rinnovarsi alla luce degli esiti del ventesimo congresso e dell’evoluzione in corso all’Est. Tre giorni dopo, la cellula approva un «appello ai comunisti»
nel quale si chiede fra l’altro che «sia sconfessato l’operato della direzione» e che «si dichiari apertamente la nostra piena solidarietà con i movimenti popolari polacco e ungherese e con i comunisti che non hanno abbandonato le masse protese verso un radicale rinnovamento dei metodi e degli uomini».
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In vista di una possibile trasformazione del PCI, Calvino ha come punto di riferimento Antonio Giolitti.
1957
Pubblica su «Città aperta» (periodico fondato da un gruppo dissidente di intellettuali comunisti romani) il racconto-apologo La gran bonaccia delle Antille, che mette alla berlina l’immobilismo del PCI.
Dopo l’abbandono del PCI da parte di Antonio Giolitti, il primo agosto rassegna le proprie dimissioni con una sofferta lettera al Comitato Federale di Torino del quale faceva parte, pubblicata il 7
agosto sull’«Unità». Oltre a illustrare le ragioni del suo dissenso politico e a confermare la sua fiducia nelle prospettive democratiche del socialismo internazionale, ricorda il peso decisivo che la militanza comunista ha avuto nella sua formazione intellettuale e umana.
L’intenzione di non troncare del tutto i rapporti con il partito è espressa anche in una lettera a Paolo Spriano del 19 agosto: «Caro Pillo, come hai visto, sono riuscito a dimettermi senza una rottura completa, e conto di proseguire il mio dialogo col partito [...] Ora sono improvvisamente preso dal bisogno di fare qualcosa, di “militare”, 7
mentre finché ero nel partito non ne sentivo affatto il bisogno e potevo vivere tranquillo. Vedi che fregatura. Non so bene cosa farò. Da una parte penso che - ora che essendo fuori dal P. non avallo più la politica e le menzogne dell’«Unità» - posso riprendere a collaborare all’«Unità» e sono molto tentato di farlo [...] Ma d’altra parte, la mia firma - anche se è ormai solennemente sancito che non sono d’accordo con la direzione del partito - può agli occhi dei lavoratori servire ad avallare gli inganni di una politica a loro contraria, e questo continuerebbe a pesarmi sulla coscienza. Sono dunque allo stesso punto di prima: i miei bisogni politici sono di parlare ai comunisti e agli operai, e questo non posso fare se non da tribune che non voglio accreditare. Porca miseria» [Spr 86].
Tuttavia, quest’insieme d’avvenimenti lascia una traccia profonda nel suo atteggiamento: «Quelle vicende mi hanno estraniato dalla politica, nel senso che la politica ha occupato dentro di me uno spazio molto più piccolo di prima. Non l’ho più ritenuta, da allora, un’attività totalizzante e ne ho diffidato. Penso oggi che la politica registri con molto ritardo cose che, per altri canali, la società manifesta, e penso che spesso la politica compia operazioni abusive e mistificanti» [Rep 80].
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Esce Il barone rampante, mentre sul fascicolo 20 di «Botteghe Oscure» appare La speculazione edilizia.
1958