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In questa impresa mi servii anche di Traddles, a sua 1236

Charles Dickens David Copperfield

insaputa. Tutte le volte ch’egli veniva a farci una visita, sparavo su lui tutte le mie cartucce, in verità tenendo di mira Dora. La somma di saggezza pratica che io versai su Traddles in quella maniera fu immensa, e della migliore qualità; ma su Dora non aveva altro effetto che di deprimerla, e di farla sempre più nervosa, nel timore che poi quelle specie di paternali sarebbero toccate a lei.

Io facevo la parte d’un maestro di scuola, di una trappo-la, d’un trabocchetto; ero diventato il ragno della mosca di Dora, sempre pronto dal fondo della tela a balzar su di lei, con suo gran turbamento.

Pure, sempre con la speranza di arrivare, con mia piena soddisfazione, a traverso quella fase intermedia, a un tempo di perfetta simpatia fra Dora e me e di completa «formazione del suo spirito», perseverai per mesi e mesi. Ma alla fine m’accorsi che, benché mi fossi mantenuto in tutto quel tempo un vero riccio o un istrice, irto della mia determinazione, non avevo ottenuto un bel nulla, e cominciai a pensare che forse lo spirito di Dora era di già formato.

Riflettendoci meglio, la cosa mi parve così probabile, che abbandonai il mio progetto, che mi era parso più bello in teoria che all’atto pratico; e risolsi d’allora in poi d’esser soddisfatto di mia moglie-bimba, e di non tentar più di trasformarla con nessun metodo. Ero veramente stanco della mia sagacia e della mia prudenza solitarie, e di veder la mia diletta compressa e mortificata.

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Così un giorno comprai un bel paio d’orecchini per lei e un collare per Jip, e mi diressi a casa risoluto a riuscirle gradito.

Dora fu lietissima di quei piccoli doni, e mi baciò teneramente; ma v’era fra noi una nube, benché leggera, e io avevo risoluto che non ci dovesse essere. Se una nube non si fosse potuta evitare, me la sarei tenuta per l’avvenire in me stesso.

Mi sedetti sul canapè accanto a mia moglie, e le misi gli orecchini; e poi le dissi che temevo che da qualche tempo non ci fossimo fatta buona compagnia reciproca, come prima, e che la colpa era mia. Sinceramente lo dicevo, e veramente era così.

– Il fatto sta, cara la mia Dora – dissi – che ho cercato di divenir ragionevole.

– E anche di far ragionevole me – disse Dora, timidamente. – Non è vero, Doady?

Feci un cenno d’assentimento alla leggiadra domanda delle sopracciglia levate, e le baciai le labbra socchiuse.

– Non serve a nulla – disse Dora, scotendo il capo e facendo tinnire gli orecchini. – Tu sai che sono una bambina, e non hai dimenticato come ti dissi di chiamarmi sin dal principio. Se te lo dimentichi, temo che tu non mi vorrai mai bene. Sei sicuro di non pensare a volte, che... sarebbe stato meglio...

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Charles Dickens David Copperfield

– Meglio che, mia cara? – perché ella s’era arrestata a mezzo.

– Niente – disse Dora.

– Niente? – ripetei.

Ella mi cinse con le mani il collo, e si mise a ridere, e si diede l’epiteto di sciocca, e nascose il viso sulla mia spalla in una tale profusione di riccioli che fu una fatica sgombrarnelo e fissarlo.

– Non sarebbe stato meglio non tentare di formare lo spirito della mia mogliettina? – dissi, ridendo di me. – È

questa la domanda. Sì, davvero, è questa.

– È questo che tu hai tentato? – esclamò Dora. – Oh, che cattivo!

– Ma io non ci proverò più – dissi. – Perché io le voglio bene così com’è.

– Senza scherzo... veramente? – chiese Dora, facendo-misi più da presso.

– Perché dovrei cercar di cambiare – dissi – ciò che m’è stato così prezioso per tanto tempo? Tu non puoi mostrarti migliore di quando sei veramente tu, mia cara Dora; e noi non faremo altri tentativi temerari, ma torne-remo alle nostre antiche abitudini per esser felici.

– Per esser felici! – rispose Dora. – Sì, tutto il giorno! E

tu non ci baderai se a volte le cose andranno un po’

male.

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– No, no; – dissi. – Noi cercheremo di fare del nostro meglio.

– E non mi dirai più che facciamo cattivi gli altri – aggiunse Dora carezzevolmente – è vero? Perché, sai, è una cattiveria!

– No, no – dissi.

– È meglio esser creduta sciocca che cattiva, no? – disse Dora.

– Meglio esser semplicemente Dora che chi sa che, in questo mondo.

– In questo mondo! Ah, Doady, è un posto largo!

Ella scosse il capo, volse i suoi gioiosi lucenti occhi su di me, mi baciò, scoppiò in un’allegra risata, e balzò su Jip, per mettergli il collare nuovo.

Così finì il mio ultimo tentativo per trasformare un poco Dora. Non ero stato bene ispirato a farlo; non potevo sopportare la mia saggezza solitaria; non potevo dimenticare che ella m’aveva chiesto di chiamarla la sua piccola moglie-bimba. Risolsi di far da me solo quanto era possibile per migliorar le cose tranquillamente; ma pre-vidi che il massimo sarebbe stato sempre poco, a non voler di nuovo far la parte del ragno completamente in agguato.

E l’ombra che volevo non fosse più fra noi, doveva gravare interamente sul mio petto. Come fu?

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L’antico sentimento della mia infelicità m’invase tutto.

Se mai era diverso, era più profondo; ma era più indefi-nito che mai, e lo sentivo come una nota di musica melanconica avvertita fiocamente nella notte. Amavo cara-mente mia moglie, ed ero felice; ma la felicità che avevo vagamente sperato, una volta, non era la felicità che godevo: mancava sempre qualche cosa.

In adempimento del patto fatto con me stesso, di tracciare in queste carte il racconto fedele della mia vita, di nuovo la scruto, accuratamente, e ne rivelo i segreti. Ciò che mi mancava, lo giudicavo ancora – e lo giudicai sempre così – come qualcosa che fosse stato il sogno della mia fantasia giovanile; che era incapace di avve-rarsi, e che comprendevo, come tutti gli uomini com-prendevano, con qualche sofferenza, non si poteva avverare. Ma che sarebbe stato molto meglio per me, se mia moglie avesse potuto aiutarmi un po’ più, e partecipare alle molte cure nelle quali non avevo compagni; e capivo che questo sarebbe potuto avvenire.

Fra queste due irreconciliabili conclusioni: l’una, che ciò che sentivo era generale e inevitabile; l’altra, che una circostanza m’era particolare e avrebbe potuto essere diversa; pencolavo curiosamente, senza che avessi un chiaro senso della loro aperta opposizione. Quando pensavo agli aurei sogni della giovinezza, che non possono incarnarsi, pensavo che l’adolescente godesse una beatitudine ignota all’adulto. E allora il tempo felice passato 1241

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con Agnese, nella cara vecchia casa, si levava innanzi a me, come un fantasma del passato, che avrebbe potuto ripetersi in un altro mondo, ma che non si sarebbe mai più rianimato in questo.

Talvolta un altro pensiero mi sorgeva in mente: che sarebbe potuto accadere, o che sarebbe accaduto, se Dora e io non ci fossimo mai conosciuti? Ma ella era così in-corporata con la mia esistenza, che quella fuggevole idea tosto si dileguava lungi da me come un filo che ondeggia nell’aria.

Are sens