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Charles Dickens

David Copperfield

cappello all’attaccapanni.

– È una gran disgrazia, signor Copperfield – egli disse, nell’istante che mi vide entrare.

– Che? – esclamai. – Che c’è?

– Non sapete? – esclamò Tiffey, con tutti gli altri, cir-condandomi.

– No! – dissi, guardandoli in giro. – Il signor Spenlow –

disse Tiffey.

– Ebbene?

– È morto.

Credetti che lo studio barcollasse, e non io, mentre uno degl’impiegati mi sosteneva. Mi fecero sedere su una sedia, mi sciolsero la cravatta, e mi portarono un po’

d’acqua. Non ho alcuna idea del tempo che ci occorse.

– Morto? – dissi.

– Ieri egli rimase a pranzare in città, e se ne tornò solo con la sua carrozza – disse Tiffey – dopo aver rimandato a casa in diligenza il cocchiere, come faceva qualche volta...

– Ebbene?

– La carrozza arrivò a casa senza di lui. I cavalli si fermarono alla porta della scuderia. Il cocchiere uscì con una lanterna. Nella carrozza non c’era nessuno.

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– I cavalli gli avevano presa la mano?

– Non erano caldi – disse Tiffey, mettendosi gli occhiali

– non più caldi. Le redini erano rotte, ed erano state tra-scinate per terra. Tutta la casa fu subito in piedi; tre domestici percorsero la strada e lo trovarono un miglio distante.

– Più d’un miglio, signor Tiffey – interruppe un giovine impiegato.

– Sì, credo che tu abbia ragione – disse Tiffey – più d’un miglio... non lontano dalla chiesa... giacente in parte sul ciglio della strada, a faccia a terra. Se egli fosse caduto sentendosi male, o se fosse disceso perché si sentiva male, nessuno sa. Nessuno sa neanche se fosse già morto, quando fu ritrovato; certo era perfettamente insensibile. Forse respirava ancora, ma non pronunziò più una parola. Fu chiamato subito un medico, ma tutto fu inutile.

Non posso descrivere lo stato in cui mi piombò questa notizia. La scossa datami da un avvenimento così improvviso, la cui vittima era l’uomo col quale stavo, per qualche rispetto, in disaccordo, il vuoto pauroso nella stanza occupata da lui fino al giorno innanzi e dove il tavolino e la sedia sembravano attenderlo ancora, e il suo ultimo manoscritto aveva l’apparenza d’uno spettro; l’indefinibile impossibilità di separar l’uomo da quel luogo, e il sentimento, ogni volta che s’apriva la porta, 990

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ch’egli potesse entrare; il silenzio strano e l’inerzia dello studio, e la insaziabile avidità con la quale i nostri impiegati parlavano dello scomparso, e quegli altri che entravano e uscivano continuamente, chiedendo notizie e particolari; tutto questo può facilmente capirsi da chiunque. Ma ciò che non posso descrivere si è come, ne-gl’intimi recessi del cuore, io sentissi una gelosia segreta perfino della morte; come mi sembrasse che la sua potenza mi cacciasse via dal pensiero di Dora; come fossi invidioso perfino del suo dolore, in modo che non saprei ridire; come soffrissi al pensiero che ella piangeva lontano da me e che altri la consolava; come avessi la tremenda egoistica brama di separarla da tutti, tranne che da me, e d’esserle tutto in tutto, proprio in quei momenti così poco propizi. In quel mio stato di turbamento

– non esclusivamente e specialmente mio, spero, ma sperimentato anche da altri – mi recai quella | sera a Norwood; e apprendendo da un domestico alla porta, che in casa c’era la signorina Mills, le feci indirizzare da mia zia una lettera che scrissi io. Lamentai sincerissima-mente la improvvisa morte del signor Spenlow, e piansi nello scriverne. La supplicai di dire a Dora, se Dora era in grado di dare ascolto, che egli mi aveva parlato con la massima cortesia e il massimo riguardo; e che non aveva parlato di lei che con tenerezza, senza neppure una minima parola di rimprovero. Sapevo che facevo questo con uno scopo egoistico, perché si parlasse di me a Dora; ma mi sforzai di credere che compivo un atto di 991

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giustizia verso la memoria del defunto. E forse lo credevo.

Il giorno dopo mia zia ricevé poche righe di risposta; indirizzate, di fuori, a lei, e dentro, a me. Dora era affranta dal dolore; e quando la sua amica le aveva chiesto se volesse mandarmi i suoi affettuosi saluti, aveva solo esclamato fra le lagrime, come sempre esclamava: «Oh, caro papà mio! Oh, povero papà mio!» Ma ella non aveva detto di no, e questo per me era l’importante.

Il signor Jorkins, che era stato a Norwood dopo la disgrazia; venne in ufficio pochi giorni dopo.

Egli e Tiffey si chiusero insieme per alcuni momenti, e, poi Tiffey s’affacciò e mi fece cenno di andare.

– Oh! – disse il signor Jorkins. – Io e il signor Tiffey, signor Copperfield, siamo in procinto di esaminare gli scaffali, i cassetti e gli altri ripostigli del defunto, con lo scopo di suggellare le sue carte private e cercare il testamento. Di testamento altrove non v’è traccia. Sarà bene che assistiate anche voi, se non vi dispiace.

Io ero stato in ansia per avere qualche notizia delle condizioni nelle quali la mia Dora si sarebbe trovata, come per esempio riguardo alla tutela e simili provvedimenti legali – ed ecco che qualche cosa avrei saputo. Cominciammo a cercar subito: il signor Jorkins apriva i cassetti e gli scaffali, e noi tutti ne toglievamo le carte. Le carte d’ufficio erano messe da un lato, e le carte private 992

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(che non erano numerose) dall’altro. Avevamo l’aspetto grave; e quando c’imbattevamo in un suggello, o in una matita, o in un anello, o in qualche oggettino della stessa specie, d’uso personale del signor Spenlow, abbassava-mo la voce.

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