«Chieggo che mi permettiate di fare, per mezzo vostro, le mie scuse alla vostra eccellente zia per le mie escandescenze di poco fa. L’esplosione d’un vulcano a lungo compresso ha seguito una lotta interna che si può più facilmente indovinare che descrivere.
«Confido d’essere stato abbastanza intelligibile nel darvi l’appuntamento per oggi a otto nell’albergo di Canterbury, dove una volta io e la signora Micawber avemmo l’onore d’unire la nostra voce alla vostra per ripetere i famosi accenti del doganiere immortale nutrito e allevato sull’altra riva del Tweed.
«Compiuto questo dovere, e fatto quest’atto di riparazione, il solo che possa mettermi in grado di sostenere lo sguardo del mio simile, non sarò più veduto. Doman-derò semplicemente di esser deposto in quel luogo d’asilo universale, dove:
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dopo il terrestre viaggio
nei loro avelli angusti
dormono i padri adusti
dell’umile villaggio.
con questa semplice iscrizione:
«WILKINS MICAWBER.»
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L.
IL SOGNO DEL PESCATORE PEGGOTTY
S’AVVERA
Erano già passati alcuni mesi dalla sera del nostro colloquio con Marta sulla riva del fiume. Non l’avevo più veduta, ma ella aveva parlato col pescatore Peggotty parecchie volte. Il suo zelante intervento non aveva giovato ancora a nulla: da quanto egli m’aveva detto, non s’e-ra ancora arrivati a rintracciare alcuna traccia d’Emilia.
Confesso che cominciavo a disperare di ritrovarla, e gradatamente a persuadermi sempre più che fosse morta.
Ma la fede del pescatore Peggotty rimaneva inconcussa.
A quanto sapevo – e credo che nella sincerità del suo cuore non mi celasse nulla – non una sola volta dubitò, disperò di trovarla. La sua pazienza non mostrava mai un istante di stanchezza. E, per quanto io tremassi per l’angoscia che lo attendeva il giorno che quella sua solida certezza fosse dovuta crollare in un soffio, v’era in essa un carattere così religioso, e così teneramente espressivo della profonda purezza d’una nobile natura, che il rispetto e la venerazione che io gli portavo aumentavano ai miei occhi ogni giorno.
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La sua non era una fiducia torpida che se ne stesse con le mani in mano. Egli era stato sempre un uomo attivo, e sapeva che chi aveva bisogno d’aiuto, doveva risolutamente far la propria parte e aiutarsi da sé. L’avevo veduto partire la notte, per il timore che il lume, per una ragione o l’altra, non fosse stato acceso alla finestra del battello, e andare a piedi fino a Yarmouth. L’avevo veduto, dopo aver letto qualche cosa nel giornale che potesse riferirsi a lei, prendere la mazza e imprendere un viaggio di sessanta o settanta miglia. Egli era andato per mare a Napoli, e n’era ritornato, dopo aver udito il colloquio che io avevo avuto con la signorina Dartle. Tutti i suoi viaggi erano fatti con gran pena; perché era sempre fermo nel proposito di risparmiare e serbare il denaro per il giorno che avesse ritrovato Emilia. Ma io non lo avevo mai sentito lagnarsi per il suo lungo peregrinare; mai udito d’essere stanco, o scoraggiato.
Dora l’aveva veduto molte volte, dopo il nostro matrimonio, e gli voleva molto bene. Lo riveggo ancora in piedi accanto al canapè, col berretto in mano, e gli occhi azzurri di mia moglie-bimba levati verso di lui in atto di timida meraviglia. A volte la sera, all’ora del crepuscolo, quand’egli veniva a trovarmi, lo conducevo a fare la sua pipata nel giardino, e insieme passeggiavamo su e giù; e allora l’immagine della sua casa abbandonata, e l’aria di pace ch’essa aveva ai miei occhi infantili la sera quando il fuoco ardeva e intorno gemeva il vento, mi tornavano vividamente in mente.
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A quell’ora, una volta, egli mi disse che la sera innanzi uscendo di casa aveva trovato Marta che l’aspettava, e che ella gli aveva raccomandato di non lasciar Londra per nessun motivo, finché non l’avesse riveduta.
– V’ha detto perché? – chiesi.
– Gliel’ho domandato, signorino Davy – egli rispose –
ma essa dice sempre poche parole, e se n’è andata subito, appena avuta la mia promessa.
– V’ha detto quando si farà rivedere? – domandai.
– No, signorino Davy – rispose, passandosi pensosamente una mano sul viso. – Le ho domandato anche questo; ma m’ha detto che non poteva dirlo.
Siccome da parecchio tempo avevo risoluto di non incoraggiarlo con speranze fallaci, dissi solo, a questa notizia, che speravo che l’avrebbe subito riveduta. Mi tenni per me tutte le mie supposizioni, che erano, del resto, abbastanza deboli.
Una quindicina di giorni dopo, passeggiavo solo una sera nel giardino. Ricordo quella sera benissimo. Era la seconda nella settimana d’attesa fissataci dal signor Micawber. Aveva piovuto tutto il giorno, e v’era un sentore d’umido nell’aria. Le foglie eran gravi di acqua sugli alberi; ma la pioggia era cessata, e benché il cielo fosse ancora oscuro, gli uccelli speranzosi cantavano allegramente. Mentre passeggiavo su e giù nel giardino, l’orizzonte cominciò a chiudermisi d’intorno e le loro piccole 1273
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voci si tacquero; e quello speciale silenzio che è proprio d’una sera simile in campagna quando anche i più leggeri arbusti son calmi, prevalse, rotto appena da qualche stilla di pioggia dai rami bagnati.
V’era accanto al villino una specie di pergolato d’edera, attraverso il quale si poteva scorgere, passeggiando, la strada di fronte. Mi accadde di volger gli occhi a quel punto, mentre pensavo a molte cose; e vidi di lì un’ombra, che si piegava vivamente verso di me e mi faceva dei cenni.
– Marta! – dissi, andando alla sua volta.
– Potete venir con me? – ella chiese, con un bisbiglio commosso. – Sono stata da lui, ma non era in casa. Gli ho scritto un biglietto dicendogli dove venire a trovarci, e gliel’ho lasciato sul tavolo. M’è stato detto che sarebbe ritornato subito. Potete venire immediatamente?
Risposi, varcando all’istante il cancello. Ella fece un gesto frettoloso con la mano, come per invocar la mia pazienza e il mio silenzio, e si volse verso Londra, donde, come dimostrava la sua acconciatura, era arrivata in gran fretta a piedi.
Le chiesi se quella fosse la nostra destinazione. Siccome mi rispose di sì con lo stesso gesto frettoloso, fermai una carrozza vuota che ci veniva incontro, e vi salimmo entrambi. Quando le chiesi dove il cocchiere dovesse condurci, mi rispose: «Dovunque, nei pressi di 1274
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Golden Square, e presto!», poi si ritrasse in un angolo, e nascondendosi il viso nella mano tremante, con l’altra mi accennò di tacere, come se non potesse sopportare il suono d’una parola.
In grande ansia, e oscillante fra la speranza e il timore, la guardai come per ottenere qualche spiegazione.
Ma, vedendo che era suo desiderio di esser lasciata in pace, non tentai più di rompere il silenzio. Si andò innanzi senza pronunziare una parola. A volte, ella guardava fuori dello sportello, come se le sembrasse d’andare troppo piano, mentre in realtà si correva velocemente; ma poi rimaneva esattamente nello stesso atteggiamento di prima.
Discendemmo a un canto di Golden Square, e dissi al cocchiere d’aspettare, pensando che si potesse ancora aver bisogno di lui. Ella mi posò la mano sul braccio e mi trascinò rapidamente verso una di quelle oscure viuzze, numerose da quella parte, dove le case, che una volta erano state belle dimore occupate da famiglie intere, eran degenerate in poveri alloggi appigionati a quar-tierini separati. Entrando nella porta di una di quelle case, ella mi lasciò il braccio e mi fece cenno di seguirla per la scala comune, che era come un canale tributario della strada.
La casa sciamava d’inquilini. Mentre andavamo su, usci s’aprivano e teste facevano capolino; e gente andava giù. Di fuori, prima d’entrare, avevo visto donne e 1275
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bambini affacciati alle finestre fra i vasi di fiori; e pareva che noi avessimo destato la loro curiosità, perché erano quelli specialmente gli osservatori che facevan capolino dagli usci socchiusi. Era una larga scalinata di legno, con una massiccia e scura balaustrata, con cornici sulle porte, ornate di fiori e frutti scolpiti, e grandi strombature alle finestre. Ma tutti questi segni di antica grandezza erano in triste decadenza: il sudiciume, l’umidità e gli anni avevano indebolito il pavimento, che in molti punti era rotto e perfino pericoloso. Qualche tentativo era stato fatto, si vedeva, per infondere nuovo sangue a quella struttura indebolita, col riparare quell’antico e prezioso legno con legno ordinario; ma era come il matrimonio d’un vecchio nobile rovinato con una miserrima plebea: l’una e l’altra parte si ritiravano da quell’unione male assortita. Parecchie finestre sulla scala erano chiuse o addirittura murate. In quelle che rimanevano non v’era quasi più traccia di vetri; e a traverso le incorniciature tarlate per cui sembrava entrasse l’aria cattiva per non uscirne più, scòrsi altre case nella stessa condizione, e giù un vicino cortile, che era il mondezzaio comune del casamento.
Andammo su fino all’ultimo piano. Due o tre volte sulla scala, mi parve d’osservare nella penombra le pieghe d’una gonna che ci precedeva. Svoltando per fare l’ultimo ramo di scala che era fra noi e il tetto, vedemmo distintamente la gonna fermarsi per un istante innanzi a una porta. Poi la persona girò la maniglia, ed entrò.