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manca. D. disperata. Fatta denuncia alla polizia. L’uo-mo può essere identificato dal grosso naso e dalle gambe ad arco. Ricerche fatte in tutti i sensi. Niente J. Dora, che piange amaramente, è inconsolabile. Nuove allusioni alla giovine gazzella. A proposito, ma senza effetto.

Verso sera, appare un ragazzo. Condotto nel salotto.

Grosso naso, ma non gambe ad arco. Dice che vuole una sterlina, e conosce lui un cane. Rifiuta di dir di più, benché venga molto sollecitato. Dora offre la sterlina, e 997

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la cuoca è condotta in una casetta dove trova J. legato a una gamba di tavolino. Gioia di D. che balla intorno J.

che mangia la sua cena. Incoraggiata da questo felice cambiamento, parlo di D. C. quando andiam di sopra.

D. piange di nuovo, esclama pietosamente: «Oh no, no, no! È male pensare ad altra cosa che al mio papà.» Bacia J. e s’addormenta singhiozzando. (Non deve D. C; confidare nelle larghe ali del tempo? G. M.)»

La signorina Mills e il suo giornale furono le mie sole consolazioni in quel periodo. Vederla quando ella aveva veduta Dora pochi momenti prima – rintracciare l’ini-ziale del nome di Dora attraverso le sue pagine vibranti di simpatia – esser da lei reso sempre più infelice – erano i miei soli conforti. Mi pareva d’aver vissuto in un castello di carta, che era precipitato lasciando soltanto la signorina Mills e me fra le rovine; sentivo come se qualche tristo genio avesse segnato intorno all’innocente divinità del cuor mio un circolo magico che veramente solo le ali del tempo, le quali trasportano così lungi tante creature umane, avrebbero potuto farmi varcare.

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XXXIX.

WICKFIELD E HEEP

Mia zia, cominciando ad essere, immagino, gravemente impensierita per il mio lungo abbattimento, finse d’avere vivamente a cuore che io facessi una scappata fino a Dover per vedere se nel villino, che era stato appigionato, tutto si svolgesse in modo normale; e per stringere con lo stesso locatario un contratto a più lunga scadenza. Giannina era entrata in servizio della signora Strong, dove io la vedevo ogni giorno. Era stata indecisa, lasciando Dover, se dare o no un addio a quella rinuncia dell’umanità in cui era stata educata, e sposare un pilota; ma poi non volle arrischiarvisi. Più perché il pilota non le piaceva, credo, che per devozione al principio.

Benché lasciare la signorina Mills richiedesse uno sforzo, acconsentii ben volentieri al desiderio di mia zia, che mi dava il mezzo di passare qualche ora tranquilla con Agnese. Consultai il buon dottore per sapere se mi permettesse d’assentarmi per tre giorni; e, avendomi egli concesso quel riposo – voleva che ne prolungassi il termine; ma la mia energia vi si oppose – decisi di partire.

Quanto al Commons, non avevo ragione d’esser troppo 999

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scrupoloso nei miei doveri da quel lato. A dire la verità, noi non eravamo in odore di santità fra i procuratori di buon nome, e scivolavamo rapidamente verso una condizione equivoca. Gli affari erano stati mediocri col signor Jorkins, prima che gli si fosse associato il signor Spenlow; e benché fossero stati ravvivati dall’infusione di nuovo sangue e dalla pompa e dal lusso del signor Spenlow, non erano ancora sufficientemente stabiliti su una forte base per sopportare senza scossa un colpo come quello dell’improvvisa perdita dell’unico socio attivo. Gli affari diminuirono grandemente. Il signor Jorkins, nonostante la sua reputazione nello studio, era un incapace e un facilone, la cui reputazione al di fuori non era tale da accreditarlo. Io dipendevo da lui ora, e quando lo vedevo annasar tabacco e lasciar andar gli affari a rotoli, rimpiangevo più che mai le mille sterline di mia zia. Ma questo non era il peggio. Formicolava intorno al Commons un gran numero di bighelloni e di faccendieri, i quali, senza essere procuratori, s’impadronivano degli affari e li portavano ai procuratori autentici, dei quali molti, anche fra questi, prestavano il loro nome in cambio di una parte nel bottino. Siccome noi avevamo bisogno a qualunque costo d’affari, ci unimmo a quella nobile banda, gettando l’esca ai bighelloni e ai faccendieri perché ci portassero gli affari che riuscivano a carpire.

Ciò che cercavamo specialmente e ciò che rendeva di più erano le licenze di matrimonio e le piccole verifiche testamentarie, intorno alle quali c’era una concorrenza 1000

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accanita. Rapitori e seduttori erano piantati a tutti gl’in-gressi del Commons con la consegna di fermare tutte le persone vestite a lutto e tutte quelle dall’aspetto un po’

timido e di attirarle negli uffici dei rispettivi procuratori; consegna così bene osservata che io stesso, prima d’essere ben conosciuto, fui trascinato due volte nel gabinetto del nostro principale avversario. Il conflitto d’interessi di quei rimorchiatori di clienti a volte irritava i loro sentimenti e finiva con delle zuffe; e il Commons ebbe lo scandaloso spettacolo del nostro principale agente (che prima era stato nel commercio dei vini e poi rigattiere) lasciato in giro per alcuni giorni con un occhio pesto. Nessuna di quelle vedette si faceva il minimo scrupolo, aiutando, per esempio, una vecchia signora in nero a scendere dalla vettura, di ammazzare immediatamente il procuratore di cui ella chiedeva notizia, di spacciare quello che lo impiegava quale il legittimo successore del defunto, e di trascinare in cospetto del procuratore ignoto la vittima dell’inganno, non ancora perfettamente rimessa dal colpo di quella dolorosa notizia. Molti prigionieri mi furono condotti in questo modo. Quanto alle licenze di matrimonio, la gara era così accanita, che se a un povero diavolo di natura timida ne occorreva una, egli non aveva da far altro che sottomettersi al primo che lo acchiappava, per non esser centro d’una battaglia e diventar preda del più forte. Un nostro scrivano, che faceva nello stesso tempo quel mestiere, stava sempre col cappello in testa per esser pronto a precipitarsi fuori 1001

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in un batter d’occhio e far giurare innanzi a un sostituto la prima vittima che si presentasse. Questo sistema di persecuzione credo viga anche oggi. L’ultima volta che fui al Commons, un individuo molto cortese, in grembiule bianco, mi saltò addosso da una porta, e bisbi-gliandomi nell’orecchio le parole «licenza di matrimonio», fece l’atto di pigliarmi e portarmi in braccio fin nello studio d’un procuratore.

Da questa digressione, procediamo a Dover.

Al villino trovai ogni cosa in istato soddisfacente; e fui in grado di letificare grandemente mia zia col riferirle che il locatario aveva ereditato le sue antipatie, ed era in continua guerra con gli asini. Avendo regolato la piccola faccenda che avevo da regolarvi, e dormito la notte a Dover, mi levai presto la mattina, e raggiunsi a piedi Canterbury. Era di nuovo l’inverno, e il vento freddo e pungente, che spazzava la duna invigorì un po’ le mie speranze.

Giunto a Canterbury, errai per le vecchie strade con un piacere sobrio, che mi calmò lo spirito, mi alleggerì il cuore. V’erano le stesse insegne, gli stessi nomi sulle botteghe, le stesse persone dentro. Mi pareva che da tanto tempo non vi fossi più studente, che mi meravigliavo che la città fosse così poco mutata. Strano a dirsi, la dolce influenza di Agnese sul mio spirito, sembrava pervadesse anche la città della sua dimora. Nelle torri venerabili della cattedrale, e nelle vecchie gazze e nelle 1002

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cornacchie le cui voci aeree le facevano più raccolte dello stesso silenzio; nelle porte in rovina, una volta piene di statue, abbattute e ridotte in polvere come i pellegrini riverenti che le avevano un giorno contemplate; negli angoli cheti, ove l’edera da secoli s’arrampicava fino ai fastigi e sulle mura cadenti; nelle vecchie case, nel paesaggio pastorale dei campi, degli orti e dei giardini; da per ogni dove – in ogni cosa – spirava la stessa aria serena, lo stesso balsamo d’uno spirito calmo e pensoso.

Giunto alla casa del signor Wickfield, trovai, nella piccola stanzetta bassa del pianterreno, una volta di Uriah Heep, il signor Micawber, che faceva stridere la penna con grande energia. Era vestito d’un costume nero di taglio legale, e occupava, grosso e massiccio, tutto lo studiolo.

Il signor Micawber si mostrò estremamente lieto di vedermi, ma anche un po’ impacciato. Mi voleva condurre immediatamente in cospetto di Uriah, ma io rifiutai.

– Conosco da tanto tempo la casa – risposi – e saprò andar di sopra da me. Ebbene, vi piace il diritto, signor Micawber?

– Mio caro Copperfield – egli rispose, – un uomo che ha grandi qualità di fantasia è ostacolato dalla gran somma dei particolari inerenti agli studi legali. Nella stessa cor-1003

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rispondenza professionale – disse il signor Micawber, dando un’occhiata alle lettere sparse sul tavolo – la mente non è libera di slanciarsi in una forma d’espressione sublime. Nonostante ciò, la carriera è magnifica.

Veramente magnifica!

Are sens

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