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– Non è degno di me – dissi – per la troppo alta opinione che voi avete di me, Agnese, temo.

– Non è degno di voi, per la sincerità del vostro carattere – ella rispose – e perciò io scriverei a quelle due signore, riferendo loro, con la maggior chiarezza e schiettezza possibili, tutto ciò che è accaduto; e chiedendo il permesso di visitarle di tanto in tanto. Considerando che siete ancor giovine e lavorate per crearvi una posizione, forse sarebbe bene dir loro che siete pronto ad assogget-tarvi volentieri a quelle condizioni che parrà loro giusto d’imporvi. Le supplicherei di non respingere la vostra domanda, senza interrogar Dora; e di discuterla con lei a tempo opportuno. Non mostrerei troppo ardore – disse dolcemente Agnese – né molte esigenze. Confiderei nella mia fedeltà e nella mia tenacia... e in Dora.

– Ma se esse dovessero spaventar di nuovo Dora con le loro parole? – dissi. – E se Dora si mettesse a piangere, e non dovesse dir nulla di me?

– È verosimile? – chiese Agnese, e aveva nel volto 1012

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la sua quieta considerazione.

– Dio la benedica, è più timida d’un uccellino! – dissi. – Forse di sì. O se le due signorine Spenlow (le zitellone di quella specie a volte sono così strane) trovasse-ro sconveniente la mia domanda?

– Non credo, Trotwood – rispose Agnese, fissando i suoi dolci occhi nei miei – che quanto a questo bisogni temer molto. Forse sarebbe meglio considerar soltanto ciò che è giusto di fare, e farlo.

Non avevo più alcun dubbio di sorta. Col cuore più leggero, benché con un profondo senso dell’importanza del mio compito, dedicai tutto il pomeriggio alla composizione della minuta della lettera; e per questo gran compito Agnese mi aveva lasciato il suo tavolino. Ma prima andai a visitare il signor Wickfield e Uriah Heep.

Uriah occupava un nuovo ufficio, ancora odoroso di calce, costrutto nel giardino. Egli mi parve straordinariamente meschino, fra quella gran quantità di libri e di carte. Mi ricevette con la sua solita servilità, e finse di non aver saputo del mio arrivo dal signor Micawber; cosa di cui mi presi la libertà di dubitare. Mi accompagnò nella stanza del signor Wickfield, che era diventata l’ombra di quel che era una volta, spogliata com’era d’un gran numero di arredi passati in servizio del nuovo socio. Il signor Wickfield scambiò con me i suoi saluti, mentre Uriah se ne rimaneva innanzi al fuoco scaldan-1013

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dosi la schiena, e stropicciandosi il mento con la mano ossuta.

– Starai con noi, Trotwood, nel tempo che ti tratter-rai a Canterbury – disse il signor Wickfield, non senza un’occhiata a Uriah come per domandargli la sua approvazione.

– C’è posto per me? – dissi.

– Certo, signorino Copperfield... dovrei dir signore, ma la parola mi viene così spontanea – disse Uriah: – io son pronto a darvi la vostra antica camera, se vi fa piacere.

– No, no – disse il signor Wickfield. – Perché dovete scomodarvi voi? C’è un’altra camera. C’è un’altra camera.

– Oh, ma lo sapete – rispose Uriah con una smorfia: –

ne sarei felicissimo!

Per farla breve, dissi di volere l’altra camera o nessuna; così si stabilì che avrei occupata l’altra, e, congedatomi dai due soci fino all’ora del desinare, tornai da Agnese.

Avevo sperato di trovarla sola. Ma la signora Heep aveva domandato il permesso d’andarsi a sedere, lei e la sua calza, accanto al fuoco in quella stanza, dove non arrivava il vento, come nel salotto e nella sala da pranzo, a rincrudirle i dolori reumatici. Io l’avrei molto volentieri e, senza il minimo rimorso, esposta a tutta la 1014

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violenza del vento sul pinnacolo più alto della Cattedrale; ma bisognava fare di necessità virtù, e la salutai con tono amichevole.

– Umilmente vi ringrazio, signore – disse la signora Heep, dopo che le ebbi domandato notizia della sua salute; – non c’è male. Non ho di che vantarmi. Se potessi vedere Uriah bene accasato, non desidererei altro, vi assicuro. Come vi pare che stia il mio Uriah, signore?

L’avevo trovato più repugnante del solito, e risposi che non m’era parso in nulla mutato.

– Oh, non credete che sia mutato? – disse la signora Heep. – Modestamente mi dovete permettere di pensarla diversamente da voi. Non vi sembra dimagrato?

– Non più del solito – risposi.

– Veramente! – disse la signora Heep. – Ma voi non lo guardate con l’occhio d’una madre.

L’occhio d’una madre mi parve fosse un malocchio per il resto del mondo, allorché ella lo volse su di me, per quanto potesse essere tenero per lui; perché credo che suo figlio e lei si volessero un gran bene. Quell’occhio mi lasciò da parte e si diresse ad Agnese.

– Non vedete che si macera e si consuma, signorina Wickfield? – chiese la signora Heep.

– No – disse Agnese, continuando tranquillamente a lavorare. – Voi siete sempre inquieta sulla sua salute, 1015

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ma egli sta benissimo.

La signora Heep trasse poderosamente il fiato per le narici, e riprese il suo lavoro a maglia.

Ella non lasciò né il suo lavoro, né noi per un sol momento. Ero arrivato presto la mattina, e prima d’altre tre o quattro ore non si sarebbe desinato; ma ella non si moveva, continuando ad agitare i ferri con la monotonia con la quale un orologio a polvere versa la sua sabbia. Era seduta in un cantuccio del caminetto; io sedevo al tavolinetto di fronte; Agnese era dall’altro lato, non lungi da me. Tutte le volte che levavo gli occhi, mentre componevo lentamente la mia epistola, vedevo innanzi a me il volto pensoso d’Agnese, che mi faceva coraggio con la sua dolce e angelica rassegnazione; ma sentivo nello stesso tempo il malocchio che mi fissava, per dirigersi poi su Agnese, e ritornare su di me, e cader furtivamente sul lavoro a maglia. Che lavoro a maglia fosse, non so, non essendo io esperto di quell’arte; ma m’aveva l’aria d’una rete; e mentre lavorava ai suoi ferri, la signora Heep appariva nel bagliore del focolare in sembianza di una trista maga, trattenuta per il momento dal radioso angelo sedutole di contro, ma lì lì pronta a gettar la sua rete.

A desinare continuò la sua sorveglianza con lo stesso rigore. Dopo desinare, fu la volta di suo figlio; e quando rimanemmo soli io e il signor Wickfield, egli si mise a osservarmi con la coda dell’occhio, contorcendosi nella 1016

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più odiosa maniera. Nel salotto trovammo la madre, intenta al suo lavoro e alla sua sorveglianza. Quando Agnese, cantò e sonò, la madre se ne stette accanto al pianoforte. Una volta ella chiese ad Agnese di cantare una ballata, per la quale Uriah andava matto (invece Uriah in tutto quel tempo sbadigliò sulla poltrona); poi ella lo guardava e riferiva ad Agnese ch’egli andava in visibilio per la musica. Quasi non apriva mai la bocca senza pronunziare il nome del figlio. Mi parve evidente che quella fosse la consegna avuta.

Si andò innanzi così fino all’ora d’andare a letto. Veder la madre e il figlio volteggiare, come due grandi pipi-strelli, in tutta la casa, e abbuiarla con le loro repugnanti forme, mi diede un tale malessere che sarei rimasto da basso, con tutto il lavoro a maglia, piuttosto che andare a letto. Chiusi appena gli occhi. Il giorno appresso il lavoro a maglia e la sorveglianza ricominciarono per durare tutto il giorno.

Non ebbi l’agio di parlare ad Agnese neppure per dieci minuti: fu bazza se potei mostrarle la lettera. Le proposi di uscire con me; ma la signora Heep ripeté tante volte che era sofferente, che Agnese si sentì caritatevolmente in dovere rimanere per farle compagnia. Verso sera, uscii solo, riflettendo su ciò che dovessi fare, e se fosse giusto tacere ancora con Agnese di ciò che Uriah Heep mi aveva detto in Londra; perché questo cominciava a turbarmi molto.

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