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– Non so come mi avvenga, Agnese. Mi sembra di mancare d’una facoltà mentale che mi sarebbe necessaria.

Mi avete tanto abituato a pensare voi per me, nel felice tempo d’una volta, e a ricorrere così naturalmente a voi quando mi occorreva un consiglio e un aiuto, che veramente credo di non aver avuto il modo di formarmi l’abitudine di pensar da me.

– Che c’è dunque? – disse Agnese allegramente.

– Non so che dirvi – risposi. – Io credo d’esser serio e tenace.

– Lo credo anch’io – disse Agnese.

– E paziente, Agnese?... – chiesi, con un po’ d’esitazione.

– Sì – rispose Agnese, con un sorriso. – Piuttosto.

E pure – dissi – a volte sono così infelice e così triste, e così malfermo e irresoluto nel prendere una decisione, che evidentemente mi manca... che debbo dire?... un sostegno, forse.

– Forse, se dite così – disse Agnese.

– Bene – risposi – vedete. Voi venite a Londra, io m’af-1008

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fido a voi, e a un tratto trovo uno scopo e una mèta. Perdo la mèta di vista, vengo qui, e immediatamente mi sento un altro. Le circostanze che m’angosciavano, nell’atto di entrare in questa stanza, non sono mutate; ma in questo breve intervallo, subisco un influsso che mi muta e mi rende migliore. Che cos’è questo? Qual è il vostro segreto, Agnese?

Ella contemplava il fuoco, con la testa china.

– È sempre lo stesso – dissi. – Non ridete se vi dico che è sempre lo stesso, nelle piccole cose come nelle grandi.

I miei affanni un tempo erano ridicoli, e ora son seri; ma tutte le volte che mi sono allontanato dalla mia sorella adottiva...

Agnese levò il volto – un volto celestiale! – e mi diede la mano che io baciai.

– Tutte le volte che voi, Agnese, non m’avete fin dal principio consigliato e dato la vostra approvazione, m’è parso di smarrirmi, e d’intricarmi in una selva di difficoltà. Quando son venuto da voi finalmente (come ho fatto sempre), ho trovato la pace e la felicità. Ritorno a voi oggi, povero pellegrino affaticato, e provo una tale felice sensazione di riposo!

Sentivo così profondamente ciò che dicevo, ed ero così profondamente commosso, che mi mancava la voce; e mi copersi la faccia con la mano, e ruppi in pianto. Io esprimo la verità. Non pensavo né alle contraddizioni né 1009

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alle incoerenze che avvenivano in me, come nel cuore della maggior parte degli uomini; non mi dicevo che avrei potuto condurmi diversamente e meglio di quanto avessi fatto fino allora; né che io avevo avuto torto marcio di chiudere volontariamente l’orecchio al grido della mia coscienza; no, tutto ciò che sapevo si è che accanto a lei provavo un’impressione di pace e di riposo.

Con le sue dolci maniere di sorella; con i suoi occhi radiosi; con la sua tenera voce; e con quella soave compostezza che aveva trasformato in luogo benedetto la casa da lei abitata, ella m’infuse coraggio, e m’indusse a narrarle tutto ciò che era accaduto dopo il nostro ultimo incontro.

– E non ho altro da dirvi, Agnese – dissi, quando le mie confidenze furon terminate – tranne che ora confido in voi.

– Ma non in me dovete confidare, Trotwood – rispose Agnese con un sorriso – ma in qualche altra.

– In Dora? – dissi.

– Ma certo.

– Non v’ho detto, Agnese – dissi, un po’ confuso – che è piuttosto difficile... non vorrei per nulla al mondo dire di non confidare in Dora, perché Dora è l’anima stessa della sincerità e della purità... ma è difficile, non so come esprimerlo, Agnese. Ella è timida, e facilmente si turba e si sgomenta. Qualche momento fa, prima della morte 1010

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di suo padre, credetti mio dovere di dirle... vi racconterò tutto, se avete pazienza. E allora narrai ad Agnese della mia confessione di povertà, del Libro di cucina, dei conti di casa, e di tutto il resto.

– Oh, Trotwood! – ella riprese, con un sorriso. – La vostra storditaggine antica. Voi avreste potuto seriamente sforzarvi di trarvi dalle difficoltà, senza essere così inconsiderato con una ragazza inesperta, affettuosa e timida. Povera Dora!

Non avevo mai udito una così dolce e indulgente gentilezza espressa con la voce con cui ella mi rispondeva.

Era come se la vedessi abbracciare affettuosa e ammirata Dora, e tacita rimproverarmi, con la sua generosa protezione, d’aver inconsideratamente turbato quel cuoricino. Era come se avessi veduto Dora, in tutta la sua affascinante ingenuità, carezzare Agnese, e ringraziarla, e appellarlesi carezzevolmente contro di me, e volermi bene con tutta la sua infantile innocenza.

Come ero riconoscente ad Agnese, e come la ammiravo!

Io le vedevo tutte e due insieme, in uno splendido quadro, come due amiche bene appaiate, l’una aumentando la venustà dell’altra.

– Che dovrei fare allora, Agnese? – chiesi, dopo aver contemplato un po’ il fuoco. – Che mi consigliate di fare?

– Credo – disse Agnese – che il miglior partito da segui-1011

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re sia di scrivere a quelle due signore. Non pensate che qualunque sotterfugio non sarebbe onesto?

– Sì. Se voi lo credete – dissi.

– Io non ho le qualità per essere un buon giudice in simili faccende – rispose Agnese, con modesta esitazione

– ma certo sento... insomma, sento che l’esser segreto e clandestino non è degno di voi.

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