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«Tutto questo è assai duro a sopportare, tutto questo mi strazia. Se voi, conoscendo i miei deboli mezzi , voleste darmi qualche consiglio sul modo di esercitarli in un dilemma così insolito, aggiungereste un’altra obbligazione a tutte quelle di cui vi sono debitrice. Con le tenere espressioni dei miei figliuoli, e un sorriso dal fortunatamente inconscio nuovo arrivato, io rimango, caro signor Copperfield, la vostra afflitta

«EMMA MICAWBER».

Non mi sentii in diritto di dare a una donna dell’esperienza della signora Micawber un consiglio diverso da quello di cercare di riconquistare il signor Micawber a 1113

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forza di pazienza e di bontà (della quale cosa ero a ogni modo sicuro); ma la sua lettera non mi diede perciò meno da pensare.

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XLIII.

UN ALTRO SGUARDO AL PASSATO

Sostiamo di nuovo innanzi a un periodo memorabile della mia vita. Tiriamoci da parte per veder sfilare in una oscura processione i fantasmi, accompagnati dalla mia stessa ombra, di quei giorni che furono.

Settimane, mesi, stagioni, si dileguano, e mi sembrano poco più d’una giornata estiva e d’una serata invernale.

Ora la campagna dove vado a passeggio con Dora è tutta un fiore, un campo d’oro lucente; e ora la brughiera invisibile giace a poggetti e a monticelli sotto una coltre di neve. In meno d’un soffio, il fiume che scorre a traverso le nostre passeggiate della domenica scintilla al sole d’estate, è increspato dal vento invernale, o appe-santito da mobili lastre di ghiaccio. Più rapido che mai il fiume corre verso il mare, balena, s’oscura e dilegua.

Non un filo è mutato in casa delle due vecchie sorelle che mi dan l’immagine di due uccelli. Il pendolo sul caminetto continua il suo tic-tac, il barometro continua a rimaner sospeso nel vestibolo. Né l’orologio né il barometro sono mai esatti; ma noi crediamo in entrambi, devotamente.

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Sono legalmente maggiorenne. Ho raggiunto la dignità dei ventun anni. Ma è una specie di dignità che chiunque può conseguire. Vediamo piuttosto ciò che ho saputo fare.

Ho domato quell’arte selvaggia che si chiama la stenografia, e ne traggo dei rispettabili guadagni. Ho una gran riputazione per la mia abilità in tutti i misteri di quell’ar-te, e faccio parte d’una schiera di dodici stenografi che raccolgono le discussioni parlamentari per un giornale del mattino. Tutte le sere, prendo nota di predizioni che non si avverano mai, di programmi che non sono mai messi in esecuzione, di spiegazioni fatte unicamente per dar polvere negli occhi. Io faccio continue orge di parole. Britannia, l’infelice donna, mi sta sempre dinanzi, come un pollo allo spiedo, ben pulito e lardellato: passato da parte a parte da penne d’acciaio, e legato e stretto, intorno intorno, da un nastrino rosso. Sto dietro le quin-te abbastanza per sapere il valore della vita politica: quindi politicamente sono un incredulo, e non sarò mai un convertito.

Il mio caro amico Traddles s’è provato anche lui nello stesso lavoro, ma senza riuscirvi. Non ha perso il buon umore per il suo insuccesso, e mi ricorda che egli s’è considerato sempre di duro comprendonio. Lo stesso giornale dove io lavoro lo impiega di tanto in tanto a raccogliere fatti, che poi sono trascritti e abbelliti da penne più abili. Egli entra nel foro, e con ammirabile in-1116

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dustria e abnegazione è riuscito a raggranellare un altro centinaio di sterline da offrire a un procuratore del quale frequenta lo studio. Una gran quantità di vino di Porto fu consumata il giorno del suo ricevimento; e, considerando la spesa, debbo credere che gli studenti del Temple ne abbiano largamente approfittato.

Ho fatto un altro tentativo. Con timore e tremore mi son provato a diventar autore. Ho scritto una cosetta in segreto, l’ho mandata a una rivista, e la rivista l’ha pubblicata. Così, ho preso cuore a scrivere altri lavorucci, che mi sono regolarmente pagati. In complesso, i miei affari sono bene avviati; e quando calcolo i miei guadagni sulle dita della sinistra, passo il terzo dito e arrivo sul quarto alla seconda giuntura.

Noi avevamo lasciato Buckingham Street per trasferirci in un bel villino vicinissimo a quello che avevo ammirato tanto nel mio primo entusiasmo. Mia zia, però (che aveva venduta la casa di Dover con un buon guadagno), non intende rimanervi; ma si propone di andare ad abitare una casetta ancora più piccola nello stesso vicinato.

Che cosa significa tutto questo? Il mio matrimonio? Appunto.

Appunto, sto per sposare Dora. La signorina Lavinia e la signorina Clarissa hanno dato il loro consenso; e se mai ci furono canarini in agitazione, somigliarono perfettamente ad esse. La signorina Lavinia, che s’è assunta la sovraintendenza della guardaroba della mia diletta, è 1117

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continuamente occupata a tagliare corazze di carta grigia e a discutere con qualche rispettabile giovane che ha un lungo pacco e una misura lineare sotto il braccio.

Una sarta, sempre col petto trafitto da un ago infilato, mangia e dorme in casa; e a me sembra che mangi, beva e dorma, senza mai togliersi il ditale. La mia cara è diventata un vero manichino. Ogni momento vien chiamata per provarsi qualche cosa. Noi non possiamo stare insieme cinque minuti in pace la sera, senza che qualche donna importuna non venga a picchiare alla porta, e a dire: «Per piacere, signorina Dora, volete venire un momento su?».

La signorina Clarissa e mia zia vanno vagando per tutta Londra, per trovare dei mobili che noi dopo dobbiamo andare a vedere. Sarebbe meglio se li comprasse-ro addirittura, facendo a meno della cerimonia di collau-do; perché quando andiamo a vedere un parafuoco e un copripiatto, Dora scorge una casettina cinese per Jip, con de’ campanelli in alto, e compra quella. E ci vuole parecchio tempo per abituare Jip alla sua nuova residenza, dopo che l’abbiamo comprata: tutte le volte che vi entra o n’esce, ne fa sonare, con suo gran terrore, tutti i campanelli.

Arriva Peggotty per rendersi utile, e si mette immediatamente a lavorare. Sembra che la sua missione sia di pulire e ripulire continuamente ogni cosa. Sfrega ogni oggetto che si può sfregare, finché non lo vede rilucere, 1118

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come riluce la sua onesta fronte. E di tempo in tempo, io veggo suo fratello errar solo la sera a traverso le vie oscure, fermo a guardare tutte le donne che passano. Io non gli parlo mai a quell’ora; so benissimo, quando lo incontro grave e solitario, ciò che cerca, e ciò che teme.

Perché Traddles ha una ciera così importante oggi venendo a trovarmi al Commons, dove io vado ancora di tanto in tanto, per amor delle apparenze, quando ho tempo? L’incarnazione dei miei sogni infantili è prossima: sto per prendere la licenza di matrimonio.

È un piccolo documento e significa tanto. Traddles lo contempla sul mio scrittoio, con un sentimento d’ammirazione e di rispettoso timore. Ecco i nomi nella dolce, vecchia e fantastica unione, Davide Copperfield Dora Spenlow; ed ecco, in un angolo, quella Istituzione Paterna, l’Ufficio del Bollo, così benevolmente interessato nelle varie vicende della vita umana, che dà una occhiata alla nostra unione; ed ecco l’arcivescovo di Canterbury che invoca su noi una benedizione a stampa, al più buon mercato possibile.

E pur nondimeno mi par di fare un sogno, un sogno agitato, felice, rapido. Non mi par possibile che si avvererà; e pure non posso non pensare che quanti m’incontrano per via debbano avere certamente una specie di percezione che io posdomani sarò sposo. La Corte dei Surro-gati mi ravvisa, quando vi vado a giurare, e dispone di me con familiarità, come se passasse fra noi un vincolo 1119

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massonico. Traddles non m’è affatto necessario, ma mi accompagna in qualità di mio aiutante generale.

– Spero che la prossima volta che verrai qui, mio caro amico – dico a Traddles – ci verrai per lo stesso mio scopo. E t’auguro che quel giorno arrivi presto.

– Grazie per i tuoi auguri, mio caro Copperfield – egli risponde. – Lo spero anch’io. È una soddisfazione sapere che lei m’aspetterà tutto il tempo che sarà necessario, e che veramente è una cara ragazza...

– A che ora vai alla diligenza ad attenderla? – chieggo.

– Alle sette – dice Traddles, consultando il suo vecchio orologio d’argento, lo stesso orologio da cui una volta, a scuola, aveva cavato una ruota per fare un mulino ad acqua. – La stessa ora della signorina Wickfield, credo.

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