Un sogno il nostro inginocchiarsi insieme, a fianco a fianco; Dora, che trema sempre meno, ma s’aggrappa sempre alla mano d’Agnese; il servizio che continua tranquillo e grave; noi ci guardiamo a vicenda in una condizione di mese d’aprile tra lagrime e sorrisi, quando la cerimonia è finita; la mia giovine moglie che nella sagrestia si commuove e piange per il suo povero papà, il suo caro papà.
Un sogno il sorriso che si riaccende in lei, e le firme di noi tutti, l’una dopo l’altra, sul registro; la mia andata nella tribuna a cercar Peggotty che mi abbraccia in un angolo, e mi dice che ella ha visto sposare la mia cara mamma; la fine della cerimonia, e la nostra uscita.
Un sogno il mio orgoglioso e gioioso passaggio nella navata con la mia dolce moglie a braccetto, a traverso una nebbia di persone appena intravedute, di pulpiti, tombe, banchi, fonti, organi e vetrate in tutte le quali cose fluttuano vaghe memorie della chiesa della mia infanzia, di tanto tempo fa.
Un sogno il mormorìo, mentre passiamo, sulla giovine coppia che noi formiamo, sulla leggiadria della mia mogliettina; la nostra gioia è il nostro cicalio al ritorno in carrozza; Sofia che ci dice che quando aveva sentito domandare la licenza a Traddles (al quale io l’avevo affidata) s’era sentita venir meno, convinta com’era o ché 1126
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egli l’avesse perduta o che se la fosse fatta rubare in tasca; Agnese che ride allegramente; Dora, così amante d’Agnese, che non se ne vuole separare, e la tiene sempre per mano.
Un sogno l’avvento d’una colazione, con abbondanza di cose buone e sostanziose da mangiare e da bere, alle quali io prendo parte, come farei in qualunque altro sogno, senza la minima percezione del loro sapore; mangiando e bevendo, se m’è lecito dire, nient’altro che amore e matrimonio, perché, come non credo a tutto il resto, non credo alla solidità delle vivande.
Un sogno il discorso che pronunzio come in sogno, senza un’idea di ciò che intendo dire, con la piena convinzione di non aver detto affatto che siamo semplicemente e naturalmente più felici che ci è possibile, in sogno, si capisce. Un sogno che Jip mangi la torta nuziale, ciò che più tardi non gli riesce.
Un sogno che i cavalli di posta sian pronti, e che Dora vada via per cambiarsi l’abito. Un sogno mia zia e la signorina Clarissa che rimangono con noi; e la nostra passeggiata nel giardino; e mia zia, che ha fatto a colazione un vero discorsetto sulle zie di Dora, un discorsetto che l’ha molto divertita e che l’ha perfino inorgoglita.
Un sogno che Dora sia già pronta, e che la signorina Lavinia si libri su di lei, riluttante a perdere il bel balocco che l’ha sempre così piacevolmente occupata. Dora che, 1127
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sorpresa, scopre ogni momento di aver dimenticato un gran numero di bazzecole; e tutti s’affannano a correre da tutti i lati per andarle a prendere.
Un sogno il cerchio intorno a Dora, quando ella comincia a dire addio, un cerchio, con tutti quei lucenti colori e quei nastri, che sembra una aiuola di fiori; un sogno che la mia diletta, quasi soffocata tra i fiori, ne esca, sorridente e lagrimante insieme, per gettarsi fra le mie braccia gelose.
Un sogno il mio desiderio di prendere in braccio Jip (che deve venire con noi) e l’osservazione di Dora che dice: «No», perché deve portarlo lei. Diversamente, esso penserebbe che, ora che s’è maritata, ella non gli voglia più bene: e questo lo strazierebbe. Il nostro andare a braccetto, e Dora che si ferma per voltarsi a dire, scoppiando a piangere: «Se sono stata cattiva e ingrata per voi, perdonatemi».
Un sogno la sua manina che si agita, mentre ci avviamo di nuovo. La nuova fermata di Dora, che si volta ancora, e corre da Agnese, per darle il suo ultimo bacio e il suo ultimo addio.
Finalmente eccoci in vettura insieme, ed io mi sveglio dal sogno. Finalmente credo alla realtà. Accanto a me, ecco la mia cara, cara mogliettina, alla quale voglio tanto bene.
– Sei felice ora, sciocco? – dice Dora. – E sei sicuro che 1128
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non te ne pentirai?
Mi son tratto da parte per vedere sfilare i fantasmi dei giorni trascorsi. Ora che son passati, ripiglio il filo della mia storia.
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XLIV.
IN CASA NOSTRA
Andate via le damigelle d’onore, e trascorsa la luna di miele, mi parve strano trovarmi solo con Dora nella nostra casetta; e privo assolutamente, se m’è lecito dire, della deliziosa antica occupazione di fare all’amore.
Era una cosa così straordinaria aver Dora sempre con me! Mi sembrava così strano non esser costretto ad uscire per vederla, non aver motivo di torturarmi per lei, non doverle scrivere, non dovere scervellarmi per cercar l’occasione d’esser solo con lei. A volte, la sera, quando levavo gli occhi dal lavoro, e me la vedevo seduta di fronte, solevo appoggiarmi alla spalliera della sedia, pensando ch’era curioso che noi stessimo lì, soli insieme, come se fosse la cosa più naturale del mondo – che nessuno ficcava più il naso nelle nostre faccende – che tutto il romanzo del nostro fidanzamento era stato messo su uno scaffale a dormire – che non dovevamo far altro che piacerci a vicenda, per tutta la vita.
Quando c’era una seduta alla Camera, ed io ero costretto a far tardi la sera, mi sembrava così strano, av-viandomi per rincasare, che a casa mi aspettasse Dora.
Era così meraviglioso, le prime volte, sentirla venir giù 1130
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e vederla sedersi dolcemente accanto a me, e parlarmi, mentre cenavo. E sapere di certo che si metteva i capelli nelle cartucce. E vederglieli mettere! Non era stupefacente?
Son sicuro che due giovani uccellini se ne intendessero molto di più, di governo di casa, di me e della mia leggiadra Dora. Avevamo una domestica, naturalmente. Ed era lei che dirigeva la casa, in vece nostra. Ho ancora un segreto sospetto ch’essa fosse la figliuola della signora Crupp, travestita, tanto era il terrore che Maria Anna ci incuteva.
Si chiamava Maria Anna Campione. Quando la prendemmo al nostro servizio, ci assicurò che il suo nome non esprimeva che molto debolmente le sue qualità. Aveva un attestato di buon servizio grande come un manifesto; e, secondo quel documento, sapeva far di tutto, e anche dell’altro. Era una donna nella forza dell’età; d’aspetto severo ; e soggetta (specialmente nelle braccia) a una specie di continua rosolia o terribile eruzione di pelle. Aveva un cugino nelle guardie, dalle gambe così lunghe che sembrava l’ombra pomeridiana di qualche altro. La sua giubba era troppo piccola per lui, come egli era troppo grosso per casa nostra, la quale, con quella sproporzione, diventava molto più piccola del necessario. Inoltre, le pareti erano così sottili, che quand’egli passava la sera in casa nostra, ne eravamo avvertiti da una specie di continuo grugnito nella cuci-1131
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na.
C’era stato garantito che il nostro tesoro era sobrio e onesto. Son perciò disposto a credere che ella fosse svenuta, al momento che la trovammo senza conoscenza sotto la marmitta; e che i cucchiaini da tè mancanti li avesse fatti sparire l’uomo dell’immondizia.
Ma ella ci sconvolgeva la mente. E noi sentivamo la nostra inesperienza, e ci sentivamo incapaci di cavarce-la da noi. Saremmo stati in sua mercé, s’ella ne avesse avuta; ma era una donna spietata, e non ne aveva. Fu lei la causa del nostro primo piccolo litigio.
– Dilettissima mia – dissi un giorno a Dora – credi che Maria Anna abbia qualche idea del tempo?
– Perché, Doady? – chiese Dora, levando la testa, con la più grande innocenza, dal suo disegno.
– Perché, amor mio, sono le cinque, e dovevamo desinare alle quattro.
Dora diede un’occhiata all’orologio, e osservò di avere il sospetto che andasse avanti.