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– Un po’ più presto. La signorina Wickfield arriva alle otto e mezzo.

– Ti assicuro, mio caro amico – dice Traddles – che sono tanto contento, quasi come se stessi per ammogliarmi io. E poi non so come ringraziarti per la bontà e il sentimento d’amicizia che t’ha mosso di far partecipare personalmente Sofia a questo lieto avvenimento, invi-tandola a essere damigella d’onore della sposa insieme con la signorina Wickfield. Ne sono molto commosso.

Io l’ascolto e gli stringo la mano; e parliamo, e cammi-niamo, e desiniamo, e così di seguito; e a me non par 1120

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possibile. Nulla è reale.

All’ora stabilita, Sofia arriva in casa delle zie di Dora.

Ella ha un viso grazioso – non assolutamente bello, ma d’una grande simpatia – ed è la fanciulla più schietta, naturale, sincera, attraente che io mi sia mai veduta.

Traddles ce la presenta con un senso d’orgoglio; e si sfrega le man per dieci minuti filati d’orologio, con tutti i capelli irti come spilli sulla testa, quando gli faccio in un angolo le mie congratulazioni.

Sono andato ad aspettare Agnese all’arrivo della diligenza di Canterbury, e il suo lieto e sereno viso è per la seconda volta fra noi. Agnese ha una grande simpatia per Traddles, ed è bello vederli, nel momento dell’incontro, e osservare la soddisfazione di Traddles mentre le fa fare la conoscenza della più cara ragazza del mondo.

E pure non mi sembra possibile! Passiamo una giornata deliziosa, e siamo estremamente felici. Ma tutto mi sembra un sogno. Non riesco a raccogliermi; non riesco a frenare la mia felicità. Mi sembra d’essere in una condizione nebulosa e malferma; come se mi fossi levato presto una quindicina di giorni prima, e non fossi andato ancora a letto. Non riesco a capire quando fu ieri. Mi pare d’essere andato errando per parecchi mesi con la licenza in tasca.

Anche il giorno dopo, allorché andiamo tutti in gruppo a 1121

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veder la casa – casa nostra – quella mia e di Dora – non sono in grado di considerarmene il padrone. Mi par di vedere da un momento all’altro arrivare il vero padrone e sentirmi dire che è lieto di salutarmi. E che bella casa che è, con tutti gli arredi lucidi e nuovi; coi fiori sui tappeti, che sembrano colti un momento fa, e le foglie verdi sulla carta delle pareti, che sembrano spuntate in quell’atto; con le cortine di mussolina immacolata, e i mobili di pudibondo color di rosa, e il cappello fiorito di Dora col nastro azzurro – ricordo, ora, come le volevo bene in un altro cappello simile quando la vidi la prima volta –

già sospeso al suo piccolo piolo; e la custodia della chitarra che se ne sta a suo agio sul predellino in un angolo; e tutti che ammirano la pagoda di Jip, troppo grossa in proporzione della casa.

Un’altra serata felice, un altro sogno come gli altri, e furtivamente entro nella solita stanza prima d’andarmene. Dora non c’è. Immagino che stia ancora a provarsi qualche cosa. La signorina Lavinia s’affaccia, e mi dice misteriosamente ch’ella non tarderà molto. Ma intanto ritarda: e finalmente sento un fruscio alla porta, e qualcuno picchia.

Dico: «Avanti!»; ma si ode di nuovo un picchio.

Vado alla porta, meravigliato; ed ecco incontro un paio d’occhi lucenti e un viso tutto rosso: sono gli occhi e il viso di Dora; è la signorina Lavinia che l’ha vestita con l’abito di domani, cappello e tutto, per farmela ve-1122

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dere. Mi stringo al petto la mia piccola moglie: e la signorina Lavinia dà un piccolo strillo perché faccio cadere il cappello, e Dora ride e piange insieme, perché sono così gioioso; e tutto sembra più che mai un sogno.

– Ti piace, Doady? – dice Dora. – Bello! Altro se mi piace!

– E sei sicuro che mi vuoi molto bene? – dice Dora.

Questa domanda è carica di tanto pericolo per il cappello, che la signorina Lavinia dà un altro piccolo strillo, e m’avverte che Dora può essere, sì, guardata; ma per nessuna ragione al mondo, toccata. Così Dora rimane un paio di minuti in un delizioso atteggiamento di confusione per essere ammirata; e poi si leva il cappello (come è più graziosa senza!) e se ne va con esso in mano; e ritorna ballando con le vesti di tutti i giorni; e domanda a Jip se io ho una bella mogliettina, e se per-donerà alla sua padroncina che si marita, inginocchian-dosi per farlo star ritto sul Libro di cucina, per l’ultima volta, nella sua vita di nubile.

Vado a coricarmi, più incredulo che mai, in una cameretta fissata nelle vicinanze; e m’alzo presto la mattina per andare a Highgate a prendere mia zia.

Non ho mai veduto mia zia in un’acconciatura simile. Ha indossato un abito di seta color di lavanda, è coperta d’un cappellino bianco, ed è stupefacente. L’ha vestita Giannina, ed eccola che mi guarda. Peggotty è 1123

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pronta per venire in chiesa, dove vuole assistere alla cerimonia dalla tribuna. Il signor Dick, che deve conse-gnarmi la mia diletta all’altare, s’è fatto arricciare i capelli. Traddles, con cui avevo l’appuntamento alla barriera, presenta un’abbagliante combinazione di color crema e d’azzurro pallido; e tanto lui quanto il signor Dick danno l’impressione generale d’esser entrambi calzati di guanti dalla testa ai piedi.

Certo, m’accorgo di questo, perché so che è così; ma son distratto, e mi par di non veder nulla. Né credo a nulla di particolare. Pure, mentre corriamo verso la chiesa in carrozza aperta, quel matrimonio fantastico è abbastanza reale per riempirmi d’una strana compassione per quei disgraziati che non vi partecipano e s’affannano a spazzare davanti alle loro botteghe, o si recano alle loro occupazioni quotidiane.

Per tutto il percorso mia zia mi tiene la mano nelle sue. Quando ci fermiamo un po’ prima di arrivare alla chiesa per far discendere Peggotty, che è stata a cassetta, ella mi stringe la mano e mi dà un bacio.

– Dio ti benedica, Trot. Se tu fossi mio figlio, non mi saresti più caro. Questa mattina ho pensato a quella povera cara piccina di tua madre.

– Anch’io. E debbo tutto a te, cara zia.

– Zitto, bambino! – dice mia zia; e con gran cordialità dà la mano a Traddles, che dà la sua al signor Dick, 1124

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che dà la sua a me, che do la mia a Traddles; e allora tutti arriviamo alla porta della chiesa.

Certo la chiesa è abbastanza calma; ma un telaio a vapore in piena azione forse avrebbe avuto su me un effetto più calmante. Son troppo agitato per sentir l’azione delle impressioni esterne.

Il resto è tutto un sogno più o meno incoerente.

Un sogno l’ingresso di tutti e di Dora; un sogno la donna che ci apre i banchi, come un sergente istruttore, innanzi alla balaustrata dell’altare; un sogno la mia stessa domanda di quel momento sul perché le donne che aprono i banchi in chiesa debbano essere le più sgraziate del mondo, e se un pio timore di un disastroso contagio di buon umore renda necessario l’uso di quei vasi d’aceto sulla via del paradiso.

Un sogno l’apparizione del pastore e del chierico; i pochi barcaiuoli e alcune altre persone che sono entrati; un vecchio marinaio dietro di me che riempie la chiesa d’un forte odore di rum; il servizio che comincia a esser letto con voce grave, e la nostra profonda attenzione.

Un sogno la signorina Lavinia, che fa da damigella d’onore semi-ausiliaria, ed è la prima a piangere, facendo omaggio (come io credo) alla memoria di Pidger; Agnese che ha cura di Dora; mia zia che si sforza di apparire un modello di gravità, mentre le lagrime le rigano il viso; la piccola Dora, che trema tutta, e risponde con 1125

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fiochi bisbigli.

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